I dazi commerciali hanno una lunga storia, che risale alle prime forme di commercio tra civiltà. Sono stati utilizzati dall’Antico Egitto, dalla Mesopotamia, dalla Grecia e dall’Impero Romano. Raggiunsero l’apice nel Medioevo, quando furono applicati non solo dagli Stati ma anche da città, prime fra tutte Genova e Venezia. Nonostante le antiche radici, questi strumenti economici continuano a sollevare questioni etiche e morali complesse che vanno oltre la semplice logica del profitto. Donald Trump ha annunciato l’introduzione di dazi del 25% sulle auto importate, ossia sui veicoli prodotti fuori dagli Stati Uniti. La strategia, come sottolineato dal tycoon, ha l’obiettivo di incentivare i produttori stranieri a stabilirsi negli Stati Uniti, spingendoli a produrre localmente e contribuendo, secondo le stime di Trump, a recuperare fino a “100 miliardi di dollari l’anno“.

Questa politica potrebbe avere implicazioni significative per l’industria automobilistica globale, inducendo le case automobilistiche a riconsiderare le loro catene di approvvigionamento e i loro impianti di produzione, con potenziali benefici economici per gli Stati Uniti in termini di creazione di posti di lavoro e rilancio della produzione interna. Tuttavia, Trump ha anche lanciato una minaccia agli alleati, come l’Unione Europea e il Canada, dichiarando che potrebbe imporre ulteriori dazi se riterrà che le azioni di Bruxelles e Ottawa siano coordinate in maniera dannosa per gli interessi americani. Il piano di Trump riflette una visione economica più aggressiva che mira a rinegoziare le relazioni commerciali internazionali e rafforzare l’autosufficienza produttiva degli Stati Uniti, ma non è privo di rischi.

Da un punto di vista etico e morale, i dazi sono molto discutibili, perché possono proteggere le industrie nazionali, ma rischiano di creare un protezionismo ingiusto, danneggiando i consumatori e i produttori di altri paesi. Inoltre, possono ostacolare lo sviluppo economico dei paesi poveri, perpetuando le disuguaglianze globali. Infine, i dazi possono rivelarsi delle cambiali con conseguenze a lungo termine sull’economia globale, influenzando le opportunità delle generazioni future.

I dazi sono discutibili anche sul piano della responsabilità sociale, perché possono portare alla perdita di posti di lavoro in alcuni settori – pur creandone altri in comparti diversi -, sollevando questioni di responsabilità sociale verso i lavoratori colpiti. I dazi sembrano dare ragione a Benjamin Disraeli, il quale cinicamente riconosceva che “La libertà di commercio non è un principio, è un espediente”. Non meno gravi sono gli effetti che possono produrre sul piano della cooperazione, in quanto possono alimentare tensioni tra Paesi, minando la cooperazione internazionale e la solidarietà globale. Inoltre, la ricerca del profitto per il Paese emittente può entrare in conflitto con il bene comune globale, che impone un approccio più etico e responsabile. Va anche ricordato che la risoluzione delle controversie commerciali attraverso il dialogo e la negoziazione è preferibile all’uso di dazi punitivi, che possono innescare guerre commerciali.

Per contenere la portata immorale dei dazi, è indispensabile che essi vengano emessi in un clima di grande trasparenza: i consumatori e i cittadini del Paese emittente devono essere preventivamente informati sulle conseguenze che possono comportare, per consentire loro di poter esercitare un controllo democratico sulle politiche commerciali. Di tutto questo non c’è traccia nell’operato di Trump e nei suoi proclami pseudo patriottici che evidenziano soltanto la voglia di arraffare quanti più soldi possibili nel minor tempo.

Ne deriva che i dazi commerciali non sono solo strumenti economici, ma anche scelte etiche e morali che richiedono una riflessione profonda sui loro impatti a livello globale. Sul piano politico, essi giocano un ruolo complesso e poliedrico, influenzando le relazioni internazionali, le dinamiche interne dei paesi e le strategie economiche. Hanno lo stesso peso di una dichiarazione di guerra, sulla quale la diplomazia ha poco da fare. Le guerre commerciali hanno sempre comportato ritorsioni, aumento dei costi per le imprese e i consumatori, e un’instabilità politica che non giova alle relazioni internazionali e alle Borse.

Anche sul piano strettamente economico, i benefici dei dazi sono piuttosto incerti sulle gambe: possono proteggere le industrie nazionali dalla concorrenza estera, favorendo la produzione interna e l’occupazione, ma il protezionismo può portare a inefficienze, aumento dei prezzi e riduzione della competitività a lungo termine. I dazi possono generare entrate fiscali per i governi, utilizzabili per finanziare programmi pubblici, ma l’aumento dei prezzi che generano può ridurre il potere d’acquisto dei consumatori e avere un impatto negativo sull’economia. I dazi possono certamente proteggere lo sviluppo di alcuni settori, col potenziale rischio però di potersi trasformare anche in un ostacolo all’innovazione e alla competitività.

I dazi commerciali, così come le sanzioni economiche, possono avere conseguenze impreviste e indesiderate e il buon senso suggerisce di valutarne gli effetti soprattutto in un’ottica di medio-lungo periodo. Ricordiamoci che “Londra è nata dal nulla, non per motivi militari, ma essenzialmente per ragioni commerciali”. Di norma, i dazi sono influenzati da gruppi di interesse, come le lobby industriali o i sindacati, che cercano di proteggere i propri interessi, ma l’evidenza storica dimostra che possono portare a politiche commerciali distorte, che favoriscono alcuni settori a scapito di altri.

In sostanza, non è detto che i politici possano utilizzare i dazi per ottenere consensi elettorali, soprattutto nei casi in cui i contropoteri – che sempre esistono nelle democrazie consolidate – riescono a bilanciare o vanificare, agli occhi dell’opinione pubblica, i potenziali vantaggi. E questo sta avvenendo anche negli Usa, in particolare nelle cosiddette Rust Belt, le zone industriali decadute, dove il consenso a Trump è in netto declino.

Elon Musk ha scoperto che i dazi imposti dal compagno di merende Donald Trump sono e saranno devastanti per la sua Tesla, in caduta libera anche a causa del protezionismo trumpiano. Parlando delle tariffe aggiuntive alle auto imposte da Trump, Musk ha scritto, testuale: “Questo inciderà sul prezzo dei pezzi di ricambio per auto Tesla che provengono da altri paesi. L’impatto sui costi non è trascurabile.” È sempre la stessa storia. Prima si dichiara con spavalderia guerra al mondo, a suon di sparate e deliri populisti, poi, quando ci si rende conto di vivere nel mondo che si vuole distruggere – e si fanno i conti in tasca propria – suona la sveglia e, a malincuore, bisogna rimettere i piedi a terra. Resta da vedere come le altre Nazioni risponderanno a questa manovra e se gli Stati Uniti riusciranno a bilanciare la protezione dei loro settori strategici con il rischio di isolarsi ulteriormente nei confronti di partner economici chiave.

Frédéric Bastiat (1801-1850), economista e saggista francese, sosteneva che il commercio internazionale favorisce la cooperazione tra i popoli, creando legami economici e culturali che riducono il rischio di conflitti. Al contrario, le barriere commerciali, come i dazi, alimentano il nazionalismo e l’isolazionismo, aumentando la probabilità di guerre. In sintesi, Bastiat credeva che il libero scambio fosse un potente strumento per promuovere la pace e la prosperità tra le nazioni e la sua convinzione la sintetizzò in un efficace slogan: “dove non passano le merci, passano i carri armati“. Peccato che le sue parole non abbiano convinto Macron e la combriccola che ha scelto la strada del riarmo per partecipare alla competizione di chi ce l’ha più grosso.

Mario Grasso

Mario Grasso, laureato in Scienze Sociali, giornalista pubblicista, un passato da manager aziendale e saggista, un presente da scrittore di narrativa

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *