L’avvio della XIV edizione del Festival dell’Economia di Trento in concomitanza con i commenti e le analisi sui risultati elettorali della domenica “europea”, offre l’opportunità per una meditazione virtuosa e strutturata sullo stato dell’arte del progetto europeo e sulle cause e sui possibili rimedi della crisi economica e sociale che alimenta le pulsioni populiste e sovraniste in tutti i paesi dell’Unione Europea.
L’Italia, a questo proposito, è indubbiamente il benchmark di un laboratorio politico dove al governo siedono proprio due movimenti che hanno saputo raccogliere il massimo del consenso da quegli elettori impauriti fisicamente, psicologicamente ed economicamente dagli effetti delle due grandi criticità che stanno all’origine della crisi delle democrazie liberali: la Globalizzazione e l’Immigrazione, entrambe subite e non gestite dalle cosiddette élite al potere.
A Trento, in queste ore, si discute proprio di questi temi con illustri relatori provenienti da tutto il mondo.
Gli effetti della Globalizzazione
Il risultato elettorale evidenzia che la globalizzazione e il progresso tecnologico hanno generato in tutte le democrazie europee un grande numero di cittadini “perdenti”, di persone che sono entrate nel buco nero di una spirale senza fine derivante dalla crisi economica. Non vedono più alcuna opportunità di uscire da questa loro condizione e allora protestano, da un lato, scendendo in piazza e dall’altro offrendo il loro consenso elettorale a partiti e movimenti politici che promettono maggiori tutele della loro posizione sia dal punto di vista sociale sia economico, a prescindere dai loro obiettivi di destra o di sinistra. Di qui quella che viene definita “l’Onda Nera” e cioè la svolta a destra di molte parti della popolazione europea.
Alcune élite intellettuali, in questi giorni di analisi, hanno provato ad archiviare la batosta elettorale attribuendo all’ignoranza degli elettori (“gli utili idioti”) la causa del successo delle destre.
L’atteggiamento è, a nostro avviso, di superbia e di miopia: invece di attivare un processo di autoanalisi sulle responsabilità delle classi dirigenti continentali per governare la globalizzazione tutelando i propri cittadini, si preferisce la scorciatoia, già utilizzata in passato, di addebitare all’ignoranza delle “classi subalterne” le ragioni di uno smacco elettorale. “Risale ad una antica tradizione, l’arroganza di chi descrive i ceti meno privilegiati come una massa di “utili idioti” pronti a farsi ingannare e tradire” ha scritto Federico Rampini, protagonista di uno dei workshop di Trento. Il corrispondente de la Repubblica dagli Stati Uniti evidenzia poi come la sinistra si sia scordata degli operai. Si è innamorata di una società multietnica e non ha più posto tra le sue priorità la protezione anche sociale ed economica, dei cittadini europei.
Rampini dimostra come il sovranista Trump, tanto contestato da tutte le élite europee, stia mantenendo alcune delle promesse fatte in campagna elettorale, promesse rivolte proprio a quella classe operaia che gli diede i voti decisivi per battere Hillary Clinton. La crescita economica americana (+3,2% nel PIL del I trimestre 2019), il pieno impiego (3,6% di disoccupazione, un minimo storico) e anche i salari che stanno finalmente crescendo più dell’inflazione, sono la dimostrazione del perché il tanto contestato e deriso Presidente degli Stati Uniti continui ad avere percentuali di consenso incredibili rispetto a come stia gestendo la politica internazionale.
La globalizzazione non va subita ma va gestita anche e soprattutto tutelando gli interessi dei cittadini degli stati europei che si vedono rubare il loro futuro, e soprattutto quello dei loro figli e nipoti, dall’invasione di prodotti e servizi provenienti dai paesi emergenti dove le regole del gioco sono più lasse, i vincoli meno rigidi, la crescita anche se non democratica, più efficiente.
La sfida delle classi dirigenti europee è dunque quella non di considerare degli imbecilli quelli che hanno girato loro le spalle, ma di prendersi a cuore il problema adottando delle politiche economiche e sociali che bilancino in maniera adeguata la tutela degli interessi economici e sociali dei propri cittadini rispetto alle opportunità ma anche alle criticità provenienti dal Villaggio Globale.
Questo dovrebbe essere il tema prioritario per combattere le disuguaglianze che oggi hanno raggiunto livelli non più accettabili.
Immigrazione selvaggia
Suggeriamo la lettura di un saggio uscito recentemente su questo tema dal titolo “L’ospite e il nemico” (Garzanti) scritto da Raffaele Simone, professore emerito di Linguistica Generale all’Università di Roma Tre.
Simone attraverso un’analisi anticonformista e non condizionata quindi dal politically correct, pur partendo da un presupposto che non ci sia nessun immigrato in quanto persona, che visto da vicino, non susciti compassione e impulso al soccorso, tira poi delle conclusioni interessanti: “L’immigrazione verso l’Europa è un evento di una tale vastità potenziale che, se incontrollato, non potrebbe che condurre questa parte del mondo ad un’autentica catastrofe più o meno analoga a quella rappresentata a suo tempo dalle invasioni barbariche”.
Due sono i temi che Simone si pone attraverso l’analisi di una massa di documenti vasta e varia provenienti dalle fonti più diverse: il primo di constatare che l’Europa stia vivendo un processo di autocolpevolizzazione per sue presunte responsabilità del passato nei confronti degli abitanti degli altri continenti e soprattutto del sud del mondo. Secondo l’autore, una gran parte degli intellettuali europei professa l’idea dell’esistenza quasi di un debito che il continente sarebbe oggi chiamato a pagare per espiare i propri crimini contro le popolazioni povere del mondo. Una “cultura del pentimento e della discolpa” che sta contaminando in senso negativo le politiche di Bruxelles.
Il secondo tema sviluppato nel testo del prof. Simone è la latitudine indiscriminata del concetto di accoglienza che è stato il criterio morale di fondo a cui si è ispirata la mentalità europea, figlia del complesso di colpa di cui sopra.
Simone precisa che un conto è il diritto all’ospitalità, cioè ad essere accolto temporaneamente in un luogo e con il beneplacito dell’accogliente, un conto ben diverso è il presunto diritto a stabilirsi dove uno vuole, indipendentemente dalla volontà di chi in quel territorio abita da tempo, avendovi magari profuso da generazioni, lavoro e cura per renderlo ciò che oggi è diventato.
Ciò senza contare che con il concetto di ospitalità si è sempre inteso riferirsi ad una sola persona o ad un piccolo gruppo di individui non certo ad una massa di milioni di immigrati in movimento.
La sua conclusione è provocatoria ma fa riflettere: “Presumere che esista un diritto all’accoglienza illimitata comporta logicamente, né più né meno che teorizzare la cancellazione virtuale dei confini” cioè di qualcosa che l’autore stesso definisce “una necessità etologica dei gruppi umani”.
Naturalmente, secondo Simone, nessun “accogliente” ha il coraggio politico ed intellettuale di trarre una simile conseguenza dalla propria posizione.
Come ha scritto Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera nella sua recensione al saggio del professore di linguistica, “La retorica serve per l’appunto a rimediare a questa falla dispiegando le sue armi, quelle che Simone chiama per l’appunto le retoriche dell’accoglienza” (da “Siamo stati tutti migranti e siamo tutti meticci”, a “dall’arrivo dei migranti abbiamo da trarre solo vantaggi”). Retoriche che egli smonta una per una, con precisione, con i fatti, con i numeri, ragionando”.
Un libro che per Galli della Loggia è imprescindibile se vogliamo incominciare a capire quali politiche assennate e scevre di complessi di colpa si debbano adottare per gestire e non subire il fenomeno della migrazione in atto.
In chiusura, ci pare importante, su questo tema, richiamare un concetto che Federico Rampini continua a ripetere nel tentativo di spiegarci quali nostre condotte abbiano scatenato la protesta e il malessere che circola nelle piazze europee. La sinistra si è innamorata della società multietnica ma, nel contempo, ha delegato l’integrazione degli stranieri ad altri, a quelli che abitano nelle periferie delle grandi città: chi vive negli stessi caseggiati popolari con l’ultima ondata di immigrati non appartiene più allo stesso ceto sociale e politico che si esprime nei talk show televisivi. Quella sinistra che parla con le agenzie di rating e con le multinazionali, ha spostato la sua rappresentanza verso altri interessi. E, secondo Rampini, non può quindi stupirsi troppo di aver perso i contatti con il proprio popolo, con le conseguenze elettorali che si leggono sui giornali.
E torniamo, per concludere, ad una riflessione che abbiamo già fatto recentemente sulle colonne de L’Incontro: l’unico che si sta occupando veramente, nella complessità attuale, di individuare una politica sociale ed economica che tuteli i veri emarginati dalla globalizzazione o le vere vittime dell’immigrazione è Papa Francesco, paradossalmente il solo e vero tutor dell’ex popolo che votava a sinistra.
Riccardo Rossotto