Nel 2016 in “Un capitalismo senza capitali: Mario Schimberni e il sogno della Public Company”, io e alcuni colleghi commentammo quella sconfitta in un capitolo intitolato “What if” che riproduco nella mia versione, elaborata con Piero Ceschia, e nello spirito della canzone di De Andrè, che ricordava che, nei grandi amori, “è stato meglio lasciarsi/che non esserci mai incontrati “.

 

La vicenda che questo libro ha ricostruito ha una implicazione storico/politica su cui pochi si sono soffermati. L’assenza di un modello di impresa ad azionariato diffuso ha rappresentato, a partire dagli anni 90, la causa dominante del limitato sviluppo dell’economia italiana. E’ evidentemente possibile dissertare a lungo se sarebbe stato necessario disporre di una fonte di capitale (come i fondi pensione) per finanziare le public companies e tutte le altre imprese, o se le public companies avrebbero facilitato e promosso lo sviluppo di queste fonti di capitale (come Schimberni era convinto, con tutti noi). Certo questa questione (di uovo e gallina, avrebbe detto Petrolini, o di dialettica, avrebbe detto Hegel) non è rilevante per questa tesi: il sistema industriale italiano, pubblico e privato, non è cresciuto e non cresce adeguatamente per l’assenza di capitali di rischio e di strutture capaci di utilizzarli, e forse di generarli o di attirarli.

Le grandi imprese private italiane non sono cresciute e non si sono internazionalizzate soprattutto per la strozzatura del capitale sociale:

la più innovativa potenziale protagonista italiana nell’economia digitale, la Olivetti, è caduta, una volta esaurita la riserva finanziaria della famiglia, nelle mani di un azionariato che aveva altrove la sua ancora di investimento, che si trattasse di Fiat, di IRI o di CIR, fino a gettare al vento il primo personal computer apparso in commercio: la Programma 101, che avrebbe trasformato il Canavese nella Silicon Valley europea;

la Fiat si avvitava per 15 anni in una strategia micro-monopolista per rinascere, fortunatamente e speriamo non troppo tardi, in una dimensione internazionale (per inciso, ad opera del manager più simile a Schimberni nel terzo millennio);

la Pirelli, la più imprenditoriale, cercando capitali all’estero ha perduto l’identità nazionale, con rischi lontani, non inesistenti, di perdere quella del management e, forse, la sua stessa autonoma sopravvivenza nel tempo;

il sistema imprenditoriale a capitale pubblico ha retto nel duopolio energetico (grazie ad una rendita che gli ha dato grande autonomia finanziaria), resiste nelle “quasi eccellenze” tecnologiche (Finmeccanica) ma chissà per quanto ancora, ha perso generatori di cassa (Autostrade), ha perso nella competizione internazionale della siderurgia, ha colpevolmente dissipato l’identità nazionale nel settore strategico del nuovo millennio, la Telecom, per la fretta dei politici e l’avidità dei privati, ha ucciso per totale incompetenza e per l’eterna guerra tra le “provincette” italiane l’Alitalia, mentre altri paesi con mercati molto più piccoli creavano infrastrutture di trasporto di rilievo globale (l’olandese KLM e l’hub di Amsterdam). Eppure proprio nel settore pubblico l’ultima ed efficace comparsa di Schimberni nelle Ferrovie dello Stato aveva dimostrato che l’economia pubblica (unica rimasta con una qualche disponibilità di risorse per investimenti) può creare un settore di servizi sano e leader tecnologico in Europa: una via che ora è percorsa anche dalle Poste;

l’industria dei media si è “affaticata” in una guerra RAI-Mediaset di poco respiro strategico, senza che nascessero dei “terzi poli” (e anche dei quarti e dei quinti, magari grazie alla privatizzazione sul mercato di un pezzo della RAI) non asfittici e “polverosi”, indipendenti, capaci di guidare e non di subire l’internazionalizzazione nella produzione/acquisto dei contenuti e dell’informazione e nella loro distribuzione. La piccola “Sette” senza capitali e la grande Sky con molti capitali sono lì a dimostrarlo;

l’eccellenza del saper fare italiano continua ad alimentare il Paese con il sistema delle piccole e medie imprese della moda, del design, dell’agroalimentare: purtroppo, con rare eccezioni, l’assenza di una vera leva finanziaria impedisce spesso a questo sistema di cavalcare efficacemente la globalizzazione, anche distributiva, e lo rende facile preda dell’internazionalizzazione altrui. Perché l’industria italiana della moda e del lusso debba essere nelle mani dei francesi LVMH e Francois Pinault/Kering qualcuno dovrebbe provare a spiegarlo;

una tra le pochissime eccezioni a questo sistema in larga parte asfittico e “decadente”, le Assicurazioni Generali della mitteleuropea Trieste, è rimasta appunto (fino ad oggi almeno) un’eccezione grazie al fatto di essere restata “tutto sommato” public company, con un management ed una strategia indipendenti e la capacità di finanziare la sua crescita sul mercato e di competere con i giganti del settore, fino a diventare appetibile in una contesa comunque di sviluppo.

Su questo sfondo, semplificato certo (perché anche altre sono le cause della debolezza italiana) ma sostanzialmente esatto, si possono leggere anche altre fragilità nazionali: prima fra tutte quella della ricerca scientifica, in perenne sofferenza per l’assenza della spirale virtuosa del rapporto fra industria e Università.

In questo stesso trentennio 1987-2017, Francia e Germania sono cresciute di più, si sono irrobustite, hanno assunto posizioni di leadership in settori industriali forti, grazie a strumenti e istituti diversi dalla public company: la prima grazie ad uno Stato investitore e gestore di migliore qualità, la seconda grazie ad un sistema di relazioni disciplinato tra banche e industrie. L’Italia non aveva né l’uno né l’altro. L’Italia più di Francia e Germania aveva bisogno della public company, un bisogno esistenziale. Questa forse è la più grande intuizione di Mario Schimberni. Proviamo ora a chiederci WHAT IF (una domanda che gli storici non possono far propria, e possono delegare in questo caso a un ingegnere).

 

COSA SAREBBE SUCCESSO SE MONTEDISON AVESSE VINTO?

Sarebbero bastati, nel dicembre 1987, 3/4 mila miliardi al massimo (meno del salvataggio di una piccola banca) perché questo accadesse e Montedison non finisse sbranata fra le ambizioni dell’effimero conquistatore e il cambio di strategia della chimica pubblica: lo scenario che immagino è, fatalmente, teorico, non irrealistico.

Si sarebbe salvata la chimica italiana, e con essa la grande farmaceutica dell’epoca, vincente nel panorama mondiale. La grande distribuzione italiana sarebbe competitore di quella francese e anglosassone e sarebbe in grado di esportare nel mondo in tempi rapidi il geniale modello italiano rappresentato da Eataly.

Del resto, Luxottica sta a dimostrare che il capitalismo delle famiglie, quando diventa “public” con un grande management, diventa leader mondiale non solo nel design delle montature ma nella tecnologia delle lenti. Su dimensioni ovviamente minori, ma globali, due schimberniani doc come Giorgio Basile e Katia Bastioli, reggono ancora una scommessa imprenditoriale sulla chimica, con Isagro e Novamont, a dimostrare che le energie e le idee c’erano, come ci sono ancora; mancò il capitale di rischio su larga scala.

Ma il modello della public company andava bene al di là della chimica. Se il disinvestimento della Telecom avesse trovato una Montedison (o comunque un gruppo a capitale diffuso con management italiano di cultura internazionale) ad accoglierla, la storia sarebbe stata diversa, la società non sarebbe finita nelle mani tutto sommato deboli di investitori francesi che oggi ”insidiano” anche l’italiana Mediaset, il genio imprenditoriale di Marisa Bellisario avrebbe avuto continuatori sia nella costruzione che nella gestione della telefonia, un polo italiano integrato di telecomunicazioni e di media di dimensione internazionale si sarebbe potuto affermare. Le migliaia di startup italiane di questo settore avrebbero un gigante alle spalle, collegato ai grandi sistemi bancari, e si produrrebbero/riprodurrebbero nel bacino di idee del circuito fra università e impresa. Negli anni 90 la public company Xerox ospitò per un anno nella sua sede un giovane startupper di pessimo carattere, dandogli accesso alle tecnologie e visione del mercato internazionale: si chiamava Steve Jobs. Le medie e grandi imprese italiane della moda, del lusso, del design, già dotate di brand e know how di eccellenza, avrebbero avuto i mezzi finanziari per conquistare mercati e sistemi distributivi internazionali attraverso acquisizioni, invece che di essere acquisite.

Anche nel campo dell’economia dei servizi il modello avrebbe potuto/potrebbe funzionare.

Un’Alitalia con una severa “cura Schimberni” e con i mezzi finanziari per rinnovare “a tempo debito” la propria flotta; un sistema aeroportuale privato dotato del capitale di rischio necessario a sviluppare “a tempo debito” un hub ed un’infrastruttura a contorno degni di questo nome. Tutto questo avrebbe consentito al sistema del trasporto aereo italiano di assumere una leadership globale, avendo anche alle spalle un mercato domestico tra i più grandi d’Europa ed una domanda di turismo dall’estero verso l’Italia potenzialmente insuperabile dagli altri paesi, Francia inclusa.

L’allargamento del numero delle public companies italiane avrebbe generato un mercato azionario vero, di dimensioni non asfittiche, e questo avrebbe sviluppato e rafforzato una cultura finanziaria moderna ed un settore di servizi di analisi finanziaria di dimensioni adeguate. Nuovi investitori internazionali sarebbero stati attirati dalla borsa italiana, in un sistema virtuoso di crescita di domanda e offerta di capitale di rischio.

Io sono/noi siamo profondamente convinti che se il sistema delle partecipazioni statali si fosse sciolto in un sistema di imprese a capitalismo diffuso, di public companies, questo Paese sarebbe un paese migliore, più ricco, più solido, con un rapporto debito/PIL degno della Germania, con in più la potenza italiana del saper fare e della bellezza, e capace di supportare il sistema sociale nelle emergenze di questi anni.

 

QUESTO È ANCORA POSSIBILE

La riforma del sistema pensionistico e dello stesso servizio sanitario nazionale, cosi come le crisi bancarie, esigono la creazione di fondi finanziari di straordinaria capacità, tali da assorbire almeno i 120 miliardi di euro detenuti in forma liquida dalle famiglie (o forse anche una quota rilevante degli 800 miliardi del totale risparmio del sistema Italia).

Masse finanziarie di questo livello possono rivitalizzare la borsa, e se Londra può restare un modello inarrivabile, Parigi e Francoforte sono alla nostra portata.

Coniugare in un solo sistema finanziario la politica pensionistica e sociale, il sistema bancario e dei fondi di investimento, la politica industriale e della ricerca scientifica e tecnologica, il turismo e il sistema dei servizi, può costruire un sistema-Paese arricchito e alimentato dal modello della public company.

Ciò richiederebbe anche, come le emergenze del mondo, il ritorno e la rinascita di un soggetto di cui esiste una crescente nostalgia diffusa.

 

LA POLITICA, QUELLA VERA E GRANDE CHE LE NUOVE GENERAZIONI NON HANNO ANCORA VISTO.

Quella politica avrebbe bisogno della public company e avrebbe la capacità di rigenerarla, con lo straordinario potenziamento offerto dalle nuove tecnologie e dalla loro capacità di interazione con i clienti/cittadini.

Un giorno Mario Schimberni ci disse che salvare la Montedison era importante quanto salvare la democrazia in Italia. Oggi l’Italia ha bisogno della principale idea di quella Montedison nel campo della politica industriale: la public company. (3 – fine)

Cesare Vaciago

Leggi la prime due puntate de Gli Anni 80 e Mario Schimberni:

La Ristrutturazione

Visione e progetti strategici

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