Avrebbe detto F. G. Lorca che la sola cosa più forte dell’amore sono le abitudini. Una profezia amara che vale anche per l’uso del linguaggio. Penso alle metafore cui via via ricorriamo e, in questo caso, a quelle adoperate per descrivere il giornalismo. Le conosciamo a memoria: quarto potere, sentinelle, testimone e persino “cane da guardia” della democrazia. Sono in uso da tempo immemore, potenza, appunto, delle abitudini.
Detto ciò, quale rappresentazione le contraddistingue? Suppongono tutte – e suggeriscono – una separazione, una sorta di terzietà immanente, tra i media e il mondo, tra gli osservatori e gli osservati, tra le azioni sociali e le reazioni giornalistiche, tra la vita politica e il giornalismo che se ne occupa, tra la giustizia e la cronaca giudiziaria.
Se mai ciò è stato vero non lo è più da tempo, tanto che, già a metà degli anni ‘90 del secolo scorso, uno studioso come N. Luhmann definiva la nostra come una “società dei media”. Il cellulare era allora neonato, oggi ci sono al mondo più tessere SIM che persone. Google non esisteva, gestisce ormai circa 60.000 ricerche al secondo. Facebook neppure, e si avvia verso i 3 miliardi di utilizzatori. Al tempo stesso, ogni media è diventato anche “social” e, quasi per converso, le reti sociali si sono fatte anche mass-media. Il risultato lo vediamo ovunque: la comunicazione governa (in politica) decide (in economia) e definisce o frantuma (i gruppi sociali).
Di tutto ciò il sistema dei media è, in un certo senso, l’epicentro comunicativo pubblico. Molto più, si converrà, di un soggetto terzo che osserva. Eppure, tornando alle nostre metafore, quelle per il giornalismo (anzi, per essere precisi per uno dei giornalismi, quello informativo-investigativo) restano le stesse che ho ricordato. Lessicalmente poco danno, ma il problema è che ogni definizione di un’attività delimita indirettamente anche la connessa responsabilità.
Ad esempio, quando si dice che le scelte del medico sono questione “di vita o di morte” si descrive anche la responsabilità che potenzialmente ne deriva. Ergo, raffigurare il giornalista come soggetto osservante ma non agente, testimone ma non protagonista, reattivo ma non attivo, perimetra riduttivamente anche la sua responsabilità. Lui dice, gli altri fanno e le scelte, o le “colpe”, sono semmai solo loro. Il che non è, o meglio non è affatto soltanto così, anzi.
Intanto, come ha ben osservato una semiologa tedesca, i media non trasportano senso bensì producono senso. Detto altrimenti, non parlano del mondo, parlano con il mondo, dunque ne costruiscono i linguaggi: ne sono il vocabolario, verrebbe da dire. Inoltre, che la comunicazione (di cui il giornalismo è parte) sia ormai diventata il mondo nel quale le società vivono e agiscono mi pare lì da vedere, a maggior ragione nell’epoca dell’interconnessione digitale permanente.
Penso, quindi, che sarebbe appunto tempo di “cambiare metafore”. Si tratta, per il giornalismo, di finalmente riconoscere una sua responsabilità sistemica, che va ben oltre sia il singolo articolo che le intenzioni del singolo redattore o di questa o quella testata. A questo proposito, discutere della libertà dei media, come spesso si fa, è importate, certo. Prioritario dovrebbe però essere ragionare sulla responsabilità e sulla qualità del lavoro giornalistico. Nei paesi dove la libertà di stampa è garantita, penso agli Stati di diritto quali ad esempio sono l’Italia e la Svizzera, ciò può senz’altro avvenire senza il pericolo di trascurare la questione della libertà. Che, ovviamente, va difesa sempre e da ogni minaccia, se possibile però concentrandosi su quelle vere, quindi anzitutto economiche o legate alle condizioni operative dei giornalisti, specie i più giovani e meno tutelati.
Freedom first dunque, certo e eccome, ma non freedom only. La libertà, da sola, non garantisce infatti la qualità né permette di affrontare il tema della responsabilità odierna del giornalismo informativo. Verso la sua missione, grandiosa, che era e rimane figlia dell’ideale illuministico del sapere aude ! Verso la democrazia liberale, minacciata da “ismi” diversi tra di loro ma con in comune l’allergia al primato dei fatti e della competenza necessaria per dibatterne. Verso il primato della legge, che ha nel giustizialismo e nell’allarmismo mediatico due tra i suo maggiori antagonisti. Per finire, anche nei confronti di quegli stessi lettori che cercano nei media bussole per orientarsi nel mare delle informazioni e invece vi trovano sempre più spesso soprattutto incessanti tempeste dove, a seconda dei gusti, indignarsi o rallegrarsi.
Insomma, e per usare un’espressone di E. Levinas, quella dei media è davvero una “libertà difficile”. Più impegnativa che autolegittimante, e proprio lì risiede – e al contempo si gioca – la sua grandezza.
Edy Salmina