Abbiamo intervistato Giorgio Donna, professore universitario, consulente aziendale, cittadino curioso del mondo con una storia professionale che vale la pena raccontare: ci fornirà un esempio di come si possa coniugare la propria competenza e la propria professionalità maturate nel privato, mettendole a disposizione della Pubblica Amministrazione. Insomma, Giorgio Donna ci spiegherà come si può svolgere il ruolo di Civil Servant anche nell’Italia del III millennio.
la Redazione
Il senso civico o lo hai “dentro” oppure fai fatica a comprenderlo. Se non te lo hanno insegnato fin da piccolo, lo sfuggi, lo snobbi, non lo ritieni fondamentale. La consapevolezza dell’importanza della continua manutenzione, dell’amore verso i Beni Comuni, quelli che non ci appartengono privatamente, ma fanno parte del nostro patrimonio collettivo, dovrebbe essere il fondamento di quella educazione civica che sta alla base di qualunque comunità costituita da esseri umani. Già, ma in Italia, l’educazione civica è stata abolita dall’insegnamento nelle scuole da parecchi anni e solo in qualche sporadico caso, di singoli professori, viene reinserita, quasi di straforo, nei percorsi formativi degli studenti.
Perché questa premessa? Perché stiamo per dialogare con un essere umano che ha dedicato tutta la sua vita non solo ad occuparsi delle sue professionalità dedicate al privato, ma ha anche, ripetutamente, svolto il delicato ed appassionante compito di Civil Servant, di “Servitore Pubblico” per trasferire competenze ed esperienze maturate nel settore privato anche alla tanto bistrattata Pubblica Amministrazione, quella disastrosa burocrazia che sta contaminando negativamente il nostro Paese. Giorgio Donna, nella sua carriera, ha fatto più mestieri: il professore universitario di “economia aziendale”; ha lavorato diversi anni come consulente aziendale nel gruppo Ambrosetti, coniugando in tal modo l’esperienza scientifica delle aule universitarie con il “marciapiede” quotidiano delle imprese italiane.
In più, in tre diverse stagioni della sua vita professionale, è stato ingaggiato dalla Pubblica Amministrazione, a livello nazionale, a livello locale e a livello universitario con il compito di trasferire il suo know-how alla complessa macchina pubblica. Ha così potuto vivere l’esperienza di un professionista affermato che decide di fare il Civil Servant, di dedicarsi, in altre parole, per certi periodi di tempo alla sua città, al suo Paese, alla sua università. Lo conosco da oltre trent’anni avendo condiviso con lui alcune progettualità pubbliche e private: ogni volta ne ho apprezzato l’impegno, la visione, la capacità di tradurre in obiettivi concreti e raggiungibili problematiche apparentemente irrisolvibili legate alla complessità della macchina burocratica. Ecco la conversazione che si è originata dal nostro incontro.
Come si diventa un Civil Servant?
Giorgio Donna ci pensa un attimo prima di rispondere, quasi perplesso: “Direi per caso: certo, devono averti insegnato certi valori, certe ‘regole del gioco’ di una comunità di esseri umani. Poi è il destino che ti offre l’opportunità per trasferire le tue esperienze maturate nel settore privato al settore pubblico. Certo, per accettare questo genere di sfide e cioè dedicarsi ad una specie di ‘servizio civile’ bisogna essere sensibili a certi valori di riferimento, a una certa consapevolezza di quanto sia importante il concetto di Bene Comune, sacrificando quindi i propri interessi personali.
Caliamo questi principi nella tua carriera, nel tuo percorso professionale
“Nella mia vita posso dire di aver fatto sempre due mestieri (il professore universitario e il consulente aziendale) e a tratti un terzo, il manager pubblico. Nel mondo universitario ho fatto il docente di Economia Aziendale che, preferisco sempre sottolinearlo, non è un corso di ragioneria, di bilanci o di fiscalità, ma è un percorso formativo che si occupa di organizzazione aziendale. Proprio per questo motivo, ho sempre cercato di coniugare la teoria scientifica che insegnavo ai miei studenti con il lavoro concreto di consulenza organizzativa nelle imprese. I dieci anni passati nel gruppo Ambrosetti sono stati fondamentali per “mettere a terra” i principi e i metodi di lavoro che insegnavo ai ragazzi, confrontandomi con la complessità delle problematiche quotidiane delle PMI italiane.
Mi sono quindi sempre occupato di pianificazione strategica, di organizzazione, di controllo di gestione. Queste sono materie stimolanti che ti permettono di vedere le realtà aziendali dal punto di vista strategico, dal punto di vista della corporate finance, dal punto di vista della misurazione delle condotte aziendali rispetto agli obiettivi posti. Insomma, è una materia che ti costringe a non smettere mai di imparare, ad avere sempre l’umiltà di non sentirti mai un ‘saputo’! Ad esempio, negli ultimi anni, ho studiato e mi sono specializzato in sostenibilità che non è soltanto marketing o comunicazione, e quindi un elegante obbligo di ottemperanza alle nuove normative, ma può diventare sul serio un’opportunità strategica per le imprese. Una delle mie massime soddisfazioni personali è stata quella di essere considerato il più accademico tra i consulenti e il più consulente tra gli accademici: rigoroso negli aspetti scientifici, ma pratico e comprensibile nelle soluzioni operative”.
Quali sono stati i passaggi più importanti della tua carriera?
“Sicuramente l’essere stato chiamato, come primo incarico all’Università di Cosenza che stava nascendo su un’idea del ministro Emilio Colombo, realizzata dall’indimenticabile Beniamino Andreatta. Ero il titolare di un corso che si occupava (quasi come fosse una innovazione visionaria) di studi economici dentro la facoltà di ingegneria. Oggi la multidisciplinarità è un valore ormai globale, allora era una primizia. Dopo l’esperimento a Cosenza, fui chiamato dal prof. Saraceno all’Università Cà Foscari di Venezia e così per dieci anni mi abituai a essere un professore pendolare tra Torino e il Piemonte e Venezia e il Veneto: una fortuna inaspettata perché mi costrinse ad abituarmi al movimento e non alla pigrizia di un lavoro sedentario sempre nello stesso posto; in più a contaminarmi e confrontarmi sempre con culture, tradizioni ed esperienze diverse.
Tornato a Torino, fui incaricato di occuparmi, con un team di specialisti, di fondare l’università del Piemonte Orientale a Novara: un’esperienza anche quella che mi arricchì di una specifica conoscenza del mondo degli atenei. Grazie a un’idea visionaria di un altro grande maestro, il prof. Rodolfo Zich, Rettore del Politecnico, una figura fondamentale nella storia di Torino che meriterebbe di essere conosciuta e approfondita con una biografia adeguata, ebbi l’opportunità di trasferirmi dall’università di Torino proprio al Politecnico: Zich si era inventato il nuovo corso di Ingegneria Gestionale, un mix di competenze che avrebbe avuto un successo enorme negli anni a seguire. Passai poi i successivi otto anni anche in un’università privata di primo livello, la Luiss di Roma: un’esperienza nuova in quanto gli atenei privati, soprattutto dal punto di vista della gestione, sono molto diversi da quelli pubblici”.
In questo contesto caratterizzato dalla permanente combinazione di attività universitarie mischiate ad attività consulenziali, si innescano le tue tre esperienze di Civil Servant. Proviamo ad analizzarle una per una, partendo da quella di assessore nel 1993 della prima giunta Castellani
“Quell’anno ci fu un momento magico per il nostro Paese: il riavvicinamento tra la politica partitica e la società civile. Da un lato Tangentopoli e dall’altro la nuova legge elettorale, favorirono un ricambio sia della classe dirigente politica sia nelle modalità di elezione della stessa. Alcuni vecchi amici, manager e imprenditori coordinati da un altro grande torinese come Enrico Salza, mi convinsero che era il momento di ‘scendere in campo’, aiutando il Paese a trasformarsi e a realizzare, almeno a livello locale, quelle benedette riforme tanto promesse e mai promosse. Il gruppo torinese aveva individuato nel prof. Castellani il miglior candidato sindaco e quella fu per me la prima esperienza concreta di partecipazione a una campagna elettorale.
Il momento chiave avvenne dopo le elezioni quando il nuovo sindaco mi chiese di fare l’assessore con lui: non ci avevo pensato e non mi sembrava un ruolo idoneo alle mie capacità. Castellani mi convinse quando mi parlò dell’istituzione di un nuovo assessorato che avremmo chiamato ‘l’Assessorato Azienda Comune’: mi offriva, in altre parole, di realizzare il sogno che avevo covato sia da professore che da consulente e cioè quello di mettere in pratica tutti i principi di organizzazione e pianificazione strategica che avevo imparato negli anni. Fu un’occasione storica e, tra l’altro, la prima volta che un ente pubblico locale italiano denominasse un assessorato proprio come Azienda Comune”.
Non avevi nessuna esperienza politica né amministrativa e quindi fu una specie di “salto nel buio”, dettato più da stimoli emotivi che non razionali
“Sì certo, rileggendo quella scelta dopo anni, andò proprio così. Non sapevo nulla di pubblica amministrazione, né mi ero mai occupato di politica. La notte prima di dover dare la risposta a Castellani mi guardai allo specchio e mi dissi: Questa è una sfida che non posso non accettare. D’altronde peggio di così è difficile che la macchina pubblica possa funzionare. In realtà quell’affermazione anni dopo, al termine del mio mandato, mi sembrò stupidamente presuntuosa. Infatti gli anni trascorsi come assessore al Comune di Torino mi convinsero come sia un miracolo che la pubblica amministrazione italiana, nonostante la sua organizzazione, possa in fondo funzionare come funziona. La complessità della macchina pubblica è enorme; l’organizzazione non è mai stata considerato un valore; vige la totale ignoranza sui fondamenti razionali di uno ‘stare insieme’ in un’azienda complicata.
Né la burocrazia pubblica né la politica hanno competenze e sensibilità organizzative. Sono quindi partito da zero e sono stato, in questo, facilitato. Fra le tante cose che con quella meravigliosa squadra impostammo e portammo a termine, due risultati mi riempiono ancora di orgoglio: (i) la riorganizzazione della macchina comunale che sarebbe diventata un benchmark a livello italiano; (ii) Torino, che era stata commissariata ed era governata dal commissario Malpica, aveva un enorme debito accumulato. Il programma di risanamento prevedeva il recupero in tre anni di 120 miliardi di lire di debito. Con un lavoro forsennato, raggiungemmo l’obiettivo in un anno e il Comune di Torino, fino alle Olimpiadi del 2006, ebbe sempre i conti a posto. Fu un’esperienza magnifica (anche se poco remunerata) e quei ‘magnifici 8 compagni di viaggio’ sono rimasti gli amici di una vita”.
Dopo però non hai continuato quell’esperienza?
“No, dopo alcune notti insonni decisi di tornare al mio mestiere, nonostante le insistenze dei miei amici. Avevo maturato un’esperienza che mi sarebbe servita poi per diversi incarichi consulenziali in aziende ospedaliere e al Comune di Roma e Milano. Fu un’esperienza che mi fece constatare l’importanza di una continua contaminazione fra il privato e il pubblico, della possibilità per chi, come me, si era sempre occupato della sua professione privata, di restituire una parte di quei saperi al mio Paese. Consiglio a tutti di farlo: anzi, dirò di più, dovrebbe quasi diventare come un ‘servizio civile’, non remunerato.
Veniamo alla seconda stazione, quella a Roma, al Ministero
“Dieci anni dopo, la neo ministra Letizia Moratti voleva mettere a capo della direzione del nuovo ministero che nasceva dalla fusione tra quello dell’Istruzione e quello della Università e Ricerca, un manager che avesse anche un’esperienza universitaria. Insomma cercava una persona che dovesse aiutarla nella difficile impresa di riformare dal punto di vista organizzativo la macchina ministeriale. Nei 18 mesi che ho passato al ministero (poi il governo cadde e per lo spoils system io decaddi) non riuscii a raggiungere gli obiettivi posti. Imparai però cosa significhi lavorare a Roma e soprattutto in un ministero. A mio avviso e userò volontariamente un termine forte, la P.A. italiana è malata di cancro. Lavorare a Roma, dentro un ministero, ti serve per sentirti vicino al cuore della malattia. Abbandonando quel posto, il dispiacere fu che in quell’anno e mezzo avevo capito molte criticità che contaminavano negativamente l’organizzazione del ministero e quindi stavo ricominciando a fare alcune cose positive. Così tornai di nuovo a fare il consulente e il professore”.
Fino alla “terza” chiamata
“Sì, nel 2012, il mio vecchio amico e professore proprio a quell’università del Piemonte Orientale, che avevo visto nascere, Cesare Emanuel mi propose la nomina a direttore generale (quel ruolo che aveva sostituito la figura del vecchio direttore amministrativo). Grazie al suo supporto di Rettore, passai tre anni molto importanti. Lavorando bene insieme, permettemmo all’università di raggiungere molti degli obiettivi in termini di risultati. Insomma, un’altra esperienza che mi aiutò a comprendere un altro ‘pezzo’ della pubblica amministrazione, quella dell’organizzazione delle università. A questo proposito decisi di scrivere un libro che potesse servire da manuale per i giovani consulenti-manager-professori che volessero sfidarsi affrontando il problema della riorganizzazione della P.A.: come la si organizza; con che strategia; con quali obiettivi. Un libro, scritto in modo divulgativo e pragmatico che, ho potuto constatare, è servito a molti giovani per capire meglio la macchina pubblica e affrontare una sfida così complessa. Il titolo del libro rappresenta benissimo il mio pensiero: ‘L’università che crea valore pubblico’”.
Concludendo, caro Giorgio, qual è il messaggio che lasci ai giovani studenti che nel mondo del lavoro molto complesso come quello di oggi devono scegliere la loro strada e quindi preventivamente il loro percorso formativo?
“Mi permetto di suggerire loro di essere soprattutto curiosi del mondo, attenti ai bisogni delle comunità, sensibili su chi ha avuto meno fortuna di loro. Oggi la P.A. italiana ha bisogno di manager professionali, con esperienze magari anche internazionali, dotati di competenza, senso di responsabilità e visione. C’è bisogno di talenti e c’è bisogno di giovani che abbiano ancora dei sogni da realizzare mettendoci impegno, sacrificio e fatica. Credo che il nostro bizzarro Paese, potendo contare su nuove generazioni adeguate a questa mission, potrà anche e finalmente girare pagina. I Civil Servant avranno un ruolo fondamentale in questa auspicata rivoluzione”.
L’intervista a Giorgio Donna finisce qui: speriamo che sia l’inizio di una lunga collaborazione con la nostra testata.