Cade quest’anno il decimo anniversario dell’incidente nucleare di Fukushima accaduto in Giappone il 11 marzo 2011 – il secondo per gravità nella storia dell’umanità dopo quello di Chernobyl (26 aprile 1986) in Ucraina (allora Urss) – classificato di grado 7, il più grave nella Scala Ines (International nuclear events scale). Il numero preciso delle vittime di ciascuno di questi incidenti non è ancora oggi noto, poiché la mortalità dei soggetti esposti agli effetti delle radiazioni nucleari si protrae nel tempo per decenni. Assai contenuto è stato comunque il numero dei deceduti accertati subito dopo gli incidenti (un morto a Fukushima e cinque a Chernobyl) mentre a distanza di dieci anni le varie organizzazioni Internazionali di controllo (Idea, Oms, Unscear) hanno denunciato 8.660 morti successivi a quello di Chernobyl e 3.200 successivi a Fukushima. Ma tutti questi dati sono tuttora in fase costante di aggiornamenti.
La Centrale nucleare di Fukushima 1 Dai-ichi si trovava nella parte nord-orientale dell’isola di Honshu – la più grande delle 632 isole che costituiscono l’arcipelago giapponese e una delle quattro più importanti (con Hokkaido, Shikoku e Kyushu) – nella regione di Tohoku, nella città di Okuma, nel Distretto di Futaba e nella Prefettura di Fukushima. Su quest’isola ( che conta oggi 2milioni e 200mila abitanti di cui 10mila a Okuma) si trovano la capitale del Giappone Tokyo (a 223 km) e le più importanti città del Paese Hiroshima, Kyoto, Nara, Osaka, Sendai, Yokohama): la più vicina a Okuma è Namie (6 km).
La Centrale “Dai-chi”, costituita da 6 reattori nucleari alimentati a Mox (miscela di ossido di uranio e plutonio radioattivi) moderati a acqua bollente (Bwr, Boiled water reactor, di cui due di fabbricazione della compagnia General Electric, due della Toshiba e due della Hitachi), ciascuno della potenza di 760 MWe (eccetto il numero uno della General Electric di 439 MWe ) fu costruita, su una area di 3,5 km quadrati, dalla General Electric nel 1968 e venne gestita dalla Tepco (Tokio electric power company, la più grande compagnia di elettricità giapponese) iniziando la produzione di energia elettrica commerciale nel marzo 1971. A 11,5 km di distanza dalla Centrale Dai-ichi, nella città di Naraha, Distretto di Futaba, si trovava la Centrale Fukushima 2 Dai-ni costruita dalla General Electric tre anni dopo, gestita anch’essa dalla Tepco, entrata in attività commerciale nel 1972, con 4 reattori alimentati a Mox e moderati Bwr (due di fabbricazione Toshiba e due Hitachi) della potenza di 1.100 MWe ciascuno.
Alle ore 14.36 del giorno 11 marzo 2011 un violentissimo terremoto di magnitudo 8.9 della scala Richter (massima magnitudo 10.0) colpì la costa nord-orientale dell’isola di Honshu, al largo della città di Sendai nella regione di Tohoku con epicentro alla profondità di 30 km nell’Oceano Pacifico: successive scosse di terremoto provocarono il sollevamento di gran quantità di acqua marina sovrastante e la formazione in superficie di onde gigantesche (tsunami) alte sino a oltre 40 metri, che si abbatterono sulla costa. Il terremoto aveva determinato sull’isola l’immediata interruzione nella produzione di energia elettrica in una area di 40 km quadrati dall’epicentro, ma al momento le centrali di Fukushima continuarono nella loro attività grazie all’automatica entrata in funzione di generatori di emergenza di corrente elettrica interni.
Questi però erogarono corrente per meno di un’ora, poiché il sopraggiungere nella Centrale della prima ondata dello tsunami (alta 15 metri che aveva superato muro di cinta della centrale stessa alto 10 metri) li mise fuori uso, interrompendo la corrente elettrica in tutta la centrale. A questo punto avrebbero dovuto subentrare nell’erogazione della corrente gli otto generatori di corrente diesel (installati a suo tempo proprio per fronteggiare eventuali accidentali mancanze di energia energia elettrica dall’esterno) ma essi non poterono entrare in funzione perché sommersi dall’acqua marina sopraggiunta. Per lo stesso motivo di nessun aiuto si dimostrarono le grosse batterie elettriche di scorta presenti nella centrale, motivo per cui si interruppe, fra l’altro, l’erogazione di energia alle pompe di raffreddamento dei nuclei dei reattori che, in breve tempo, smisero di funzionare causando un progressivo surriscaldamento – sino a una temperatura di migliaia di gradi – dei loro nuclei che determinò la fusione. A sua volta questa provocò liberazione di gas idrogeno che, mescolandosi all’ossigeno dell’aria, costituì una miscela esplosiva che scoppiò a più riprese lesionando le strutture e le pareti dei reattori dai quali fuoriuscirono acque radioattive di uranio e plutonio.
Le Autorità governative ordinarono immediatamente, la sera dell’11 marzo, l’evacuazione del personale della centrale e della popolazione di Okuma entro un raggio di 3 km dalla Centrale, portato a 30 km il mattino successivo: questi provvedimenti non impedirono che si verificassero un decesso e 26 ferimenti nelle prime ore dopo l’incidente, 3.200 altri decessi entro l’agosto 2013 (statistiche Oms ottobre 2013) e altri successivi 18.500 morti negli anni successivi per cause legate all’inquinamento radioattivo del terreno, delle acque e dell’aria circostanti la zona di Fukushima. Questo inquinamento si era verificato poiché le acque provenienti dai vicini monti Yagamata , passando nel terreno sotto la Centrale e infiltrandosi nelle crepe delle pareti disastrate dei reattori, si mescolavano con quelle radioattive che fuoruscivano da questi e si riversavano – dopo un tragitto sotterraneo – nell’Oceano, inquinando i terreni che avevano attraversato e le acque costiere in cui sfociavano per decine di km quadrati, distruggendo tutta la fauna ittica locale.
Un fall-out di materiale radioattivo diffusosi nell’aria dopo la catastrofe si estese parimenti per decine di km quadrati sulle pianure e nelle valli circostanti la centrale bloccando ogni attività agricola e di pastorizia. Le conseguenze sull’economia locale furono devastanti e le iniziative, pur numerose e diversificate, messe in atto tutt’oggi non si sono dimostrate efficaci e risolutive.
La maggioranza delle organizzazioni mondiali dedite allo studio, al controllo e alle proposte nei confronti dei danni all’umanità causati da radiazioni ionizzanti hanno imputato alla Tepco un complesso di diversi errori compiuti nella progettazione, costruzione e gestione degli impianti nucleari realizzati a Honshu. L’Oms ha messo in rilievo alcune situazioni critiche connesse con la radioattività residua attorno alla centrale comportanti gravi rischi per la salute degli abitanti in quelle aree: il pesce pescato nel mare di fronte a Okuma presenta una radioattività di circa 3mila volte superiore a quella rilevata in zone lontane; l’acqua potabile in una area di 20 km quadrati attorno alla centrale presenta a tutt’oggi una radioattività doppia rispetto a quella di altre aree e l’aria presenta valori di radioattività da 5 a 100 volte superiori al limite massimo raccomandato.
Il Naiic (Nuclear accident indipendent investigation commission) nel luglio 2012 dichiarò che l’incidente del marzo 2011 avrebbe dovuto essere considerato possibile dalla Tepco nella progettazione della centrale; che essa era colpevole di non aver assicurato servizi di sicurezza di base; di non aver previsto misure anche contro possibili danni collaterali; di non aver allestito piani di evacuazione di emergenza degli edifici. La Iaea International atomic energy agency) nel settembre 2012 rilevò errori compiuti nella costruzione della centrale quali la scelta di una regione costiera soggetta a tsunami; la sua installazione su una scogliera alta solo 5 metri sul livello del mare; la messa in opera di dighe frangiflutti alte solo 6 metri; e nella sua manutenzione, quali il mancato controllo di alcuni elementi per 11 anni e di 33 componenti dei reattori mai effettuato; l’impiego, per il raffreddamento dei reattori, di acqua di mare la cui salinità ne danneggiò le pareti; lo stoccaggio di barre di combustibile esausta in vasche con acqua non circolante con mancato loro completo raffreddamento. Il Dipartimento Energie Nucleari del Meti (Ministry of economy, trade and industry) giapponese notò, nel 2018, pericolosi accumuli di materiale radioattivo (Cesio 137) nelle sabbie e nelle acque sotterranee ancora a una distanza di oltre 100 km dalla costa orientale di Honshu. La Icrp (International commission for radiological protection) denunciò che a Namie – piccola cittadina della Prefettura di Fukushima – attualmente gli abitanti sono esposti a un livello di radiazioni triplo rispetto a quello normale; che a Obori – villaggio vicino a Namie – i livelli di radiazioni raggiungevano il valore di 4.0 millisievert/ora a fronte dei normali 1.8 millisievert/ora; e che a Date – altra città della Prefettura di Fukushima – tale livello raggiungeva i 20 millisievert/ora. Il Unccr ( United nations committee for children rights) nel novembre 2020 condannò il Governo giapponese per incompleta e travisata denuncia sull’inquinamento atmosferico tuttora in atto sull’isola di Honshu. L’Oms denunciò che, nel 2013, fu riscontrata una crescita anomala di ghiandole tiroidee nel 36% dei bambini nati nella zona di Okuma Fukushima nel 201, e, nel 2017, l’insorgenza di tumori da radioiodio in bambine nate nella stessa zona nel 2013 in percentuale (1,25%) circa doppia a fronte di una incidenza normale (0,65 %).
La Tepco ammise pubblicamente, il 12 ottobre 2012, di non aver provveduto a suo tempo ad assicurare misure atte a prevenire i fenomeni riscontrati e, contestualmente, di aver messo in opera, dall’inizio del 2012, tecnologie atte a depurare e diluire le acque defluenti da Fukushima prima che esse giungessero nel Pacifico, ma esse non sortirono l’effetto sperato, in quanto, ancora a fine giugno 2019, erano state riscontrate tracce di Cesio Rutenio, Stronzio e Iodio radioattivi nelle acque di Hoshu. Nell’occasione la Tepco affermò di prevedere un periodo di 35/40 anni per la completa decantazione della zona di Fukushima e, recentemente (2020), su richiesta della Nisa (Nuclear industrial safety agency, organismo sul Governo giapponese) mise in atto nuove modernissime tecnologie per l’eliminazione delle acque contaminate basate sulla loro subitanea neutralizzazione mediante vaporizzazione nell’atmosfera nelle immediate vicinanze della centrale.
Gli studiosi francesi dello Irsn (Institut de radioprotection et de sécurité nucléaire) e della Asn (Autorité de sureté nucléaire) hanno suggerito
(nel 2018) la raccolta e la detenzione di tali acque in enormi, robusti serbatoi fuori del perimetro della centrale, ma il Governo giapponese ha dichiarato il progetto irrealizzabile prospettando loro, come soluzione alternativa, la diluizione e il successivo versamento delle acque nell’Oceano. Del tutto recentemente (ottobre 2020) la Tepco ha prospettato di raccogliere tutto il suolo per una area di 20 km quadrati e di una profondità di 20 cm attorno alla centrale in grossi sacchi di iuta in attesa di decontaminarlo (peraltro senza indicarne i tempi e le modalità), oppure di ricoprirlo con almeno 30 cm di terreno non contaminato ivi trasportato.
Sotto la spinta dell’opinione pubblica terrorizzata dal pericolo di inquinamento nucleare, il Primo Ministro giapponese Yoshihito Noda ordinò lo spegnimento di 51 delle 54 centrali nucleari giapponesi (ne restavano attive solo la Tomari 3, la Kawasaki 6 e la Karima 6) nel 2012. Il suo successore Shinzo Abe stabilì invece di riprendere la politica del nucleare in considerazione da una parte degli enormi guadagni industriali che potevano derivare al Paese dall’impiego dell’energia nucleare a fronte ai costi di quella tradizionale, e dall’altro, della necessità di controbilanciare la potenza nucleare delle confinanti Cina e Corea del Nord. All’inizio del 2020, con l’aiuto degli Stati Uniti cui si era rivolto nel 2013, riattivò alcune delle centrali spente e diede inizio alla costruzione di due nuove centrali, Ohma 1 nel nord e Shimane 3 nel sud del Paese. Nel settembre 2020 il nuovo Primo Ministro Yoshihide Suga diede ordine di riattivare anche la centrale di Onagawa, la più vicina a quella di Fukushima, ritenendola ormai sicura.
A fine anno 2020 la situazione delle centrali nucleari in Giappone risultava di 45 reattori operativi, 3 in costruzione, 10 pianificati, 2 proposti e 10 dismessi, facendo dello Stato del Sol levante il terzo paese per numero di reattori operativi fra le Nazioni del blocco occidentale, dopo Stati Uniti (104) e Francia (58), sui 442 attualmente attivi in 29 Nazioni.
Gustavo Ottolenghi