LA PREMESSA.
Il tema della flat tax è trattato (mi viene da dire, bistrattato) da quasi tutti gli schieramenti. Purtroppo, i contributi al dibattito pubblico, da qualsiasi parte provengano, sono a seconda dei casi di sapore demagogico, aprioristicamente ideologico; sono spesso incompetenti, a volte anche in mala fede.
Da una parte, c’è che chi propone l’aliquota fissa unica per tutte le fasce di reddito, tout court, senza spiegare come dare copertura al minore gettito che ne deriverebbe e senza elaborare alcun progetto chiaro e serio e alcuna proposta sul fronte della spesa e dell’erogazione dei servizi ai cittadini; elemento quest’ultimo che costituisce, a mio avviso, imprescindibile corredo alla proposta di aliquota fiscale unica.
Dall’altra, vi è chi si schiera contro, in modo aprioristico, rifugiandosi dietro dichiarazioni apodittiche quali “in Italia non è possibile”; oppure, “si tratterebbe di una riforma incostituzionale”, perché contraria al principio della contribuzione progressiva di cui all’art. 53 della Costituzione; o ancora, la flat tax non è sostenibile, in quanto non si può finanziare, stante l’attuale livello di indebitamento del Paese (affermazione fondata, ma che ha il limite di non guardare in modo progettuale ad una più ampia revisione dell’impianto fiscale del nostro Paese).
LA PROPOSTA.
Credo che il tema flat tax debba essere affrontato nell’ambito di un più profondo progetto di riforma fiscale, che investa anche – in parte – l’essenza e le modalità del rapporto tra Stato e cittadini.
Innanzitutto, il sacrosanto principio della progressività contributiva (che prevede che coloro che godono di un reddito più alto contribuiscano in modo progressivamente maggiore al sostegno delle “spese pubbliche”) deve essere considerato in ragione di una somma algebrica tra quanto lo Stato chiede ai contribuenti e quanto lo Stato stesso eroga a beneficio dei cittadini, in termini di livelli e valore dei servizi. Immaginare, nelle attuali condizioni delle finanze pubbliche dello Stato italiano, di ridurre l’imposizione fiscale diretta con la flat tax, senza intervenire sul fronte dell’erogazione dei servizi pubblici (e, quindi, sul loro costo complessivo) è quanto meno velleitario, quando non apertamente demagogico.
D’altro canto, continuare ad immaginare un rapporto tra Stato e cittadini in cui lo Stato vessa i contribuenti con un’imposizione complessiva elevata, con ciò sottraendo risorse che potrebbero essere proficuamente re-immesse nell’economia, alimentandone la crescita, per finanziare un insieme di servizi che devono essere sostanzialmente gratis per tutti i cittadini è un approccio altrettanto demagogico e ideologico, fuori dalla realtà. Credo che sia ormai patrimonio comune di tanti la consapevolezza che non sia più sostenibile finanziare servizi pubblici che siano gratis (o quasi) per tutti, a prescindere dalle fasce di reddito dei beneficiari.
Il ragionamento circa l’impossibilità di continuare ad erogare servizi pubblici gratis per tutti, che appare di matrice culturale conservatrice e liberale classica, condurrebbe in realtà a conclusioni di cui beneficerebbero principalmente le fasce reddituali più deboli della popolazione.
Qual è, infatti, il circolo vizioso che produce oggi l’attuale situazione che vede da un lato uno Stato sociale con uguale erogazione di servizi pubblici a tutti i cittadini e dall’altro un’elevata pressione fiscale per finanziare i servizi stessi? Ecco la fotografia:
- spesa pubblica oltre ogni limite di finanziabilità, con un debito pubblico che continua a crescere;
- sottrazione di risorse all’economia reale;
- un basso livello qualitativo e di efficienza dei servizi;
- i più ricchi sostituiscono i servizi pubblici di cui sono insoddisfatti, reperendo le alternative nel settore privato o all’estero;
- i meno abbienti, che non possono permettersi di sostenere i costi del servizio privato o dei servizi che si possono acquistare all’estero, sono “condannati” al livello di qualità e di inefficienza del servizio pubblico nazionale.
Per spezzare questo circolo vizioso ed innescare fenomeni virtuosi che vadano a beneficio della collettività (ed essenzialmente dei più deboli) occorrerebbe una coraggiosa riforma che investisse anche, come dicevo sopra, l’essenza stessa del rapporto tra Stato e cittadino e la natura dello Stato sociale. Non è più sostenibile che lo stato eroghi a tutti i cittadini lo stesso livello di servizi, a prescindere dal reddito. Alcuni (molti) servizi devono essere erogati a pagamento ai più abbienti, affinché possano continuare ad essere erogati gratuitamente ai più deboli. In questo senso, la riforma investe l’essenza del rapporto Stato cittadini, ma richiede anche una sorta di nuovo patto sociale.
Penso, innanzitutto, alla sanità. I più abbienti devono pagare i servizi sanitari e devono farlo al valore di mercato, a prezzi che consentano alle strutture sanitarie di realizzare anche qualche utile; essi potranno stipulare polizze sanitarie a copertura dei costi e rischi sanitari; poi, con vincoli di bilancio, i proventi delle strutture sanitarie e le imposte pagate dalle compagnie di assicurazione “ramo sanitario” dovranno essere destinate alla Sanità. Il probabile risultato? Maggiore sostenibilità del sistema sanitario gratuito per i più deboli; un miglioramento generale della qualità e dell’efficienza del servizio, a beneficio essenzialmente di coloro che non possono permettersi alternative al servizio pubblico.
La sanità è un esempio, ma il ragionamento andrebbe esteso ad altri servizi pubblici. Penso, per esempio, alla scuola ed all’università, dove operano le medesime dinamiche tra scarsa qualità del servizio pubblico a costi sociali elevati, e possibilità solo per i più abbienti di trovare alternative nel settore privato o all’estero.
Questi circoli virtuosi condurrebbero ad una sostanziale diminuzione della spesa pubblica, consentendo così di attuare la riduzione della pressione fiscale determinata dalla flat tax¸ con conseguente liberazione di risorse che i cittadini reimmetterebbero nell’economia sotto forma di consumi o di investimenti.
Contrariamente a ciò che dicono i detrattori della flat tax, il meccanismo che immagino determinerebbe un sistema di contribuzione progressiva dei cittadini conforme al principio dell’art. 53 della Costituzione. Ciò non già per un’aliquota fiscale che cresce in modo progressivo con il crescere del reddito imponibile (come oggi), ma perchè decrescerebbe il risultato netto di cui il cittadino beneficerebbe in termini di somma algebrica tra quanto contribuisce (quanto paga di tasse, per intenderci) e quanto riceve dallo Stato. Se i più abbienti pagano le imposte sul reddito sulla base di un’aliquota fiscale fissa uguale per tutti ma ricevono meno dallo Stato in termini di servizi (nel senso che non li ricevono gratis, ma a pagamento) in ragione del maggior reddito, essi concorrono a sostenere la spesa pubblica e offrono un contributo netto allo Stato che aumenta progressivamente con il crescere del loro reddito imponibile.
Risultato:
- pressione fiscale inferiore e maggiori risorse disponibili per far crescere l’economia (per inciso, come noto, con il crescere dell’economia aumenta anche il gettito fiscale);
- riduzione della spesa pubblica;
- miglioramento della qualità e dell’efficienza dei servizi pubblici.
Ma ciò che è ancora più rilevante dal punto di vista della convivenza civile è che si potrebbe anche concretizzare il “miracolo” di un nuovo patto sociale tra i consociati. In un contesto di minore pressione fiscale (che agevolerebbe il rapporto Stato – cittadini) si potrebbe realizzare una nuova e diversa forma di equa redistribuzione della ricchezza tra i cittadini stessi; un nuovo “collante”, un rinnovato modo di pensare allo Stato sociale, conquista della nostra civiltà e elemento fondante del modello europeo di convivenza civile, che nessuno desidera mettere in discussione, ma che oggi rischia di vacillare a causa della sua insostenibilità.