L’ultimo grido d’allarme è arrivato dalla Commissione Parlamentare sull’Infanzia e l’Adolescenza. Nell’ultimo report presentato lo scorso 3 dicembre si legge testualmente: “Ci sono segnali molto forti di un malessere diffuso che si esprime in forme diverse ma che riguarda diverse fasce di età, indipendentemente dalla collocazione geografica… finora le campagne informative e le iniziative sul campo hanno riguardato per lo più adolescenti e giovani adulti, una fase in cui si sono già manifestati comportamenti additivi o devianze… perciò gli specialisti ascoltati nel corso dell’indagine insistono sulla necessità di intervenire in una fase precedente dello sviluppo, quella preadolescenziale, già dai 9 anni, e di formare i formatori: genitori, insegnanti, catechisti, allenatori”.
Ci vogliono interventi straordinari, insomma, per aiutare ragazzi sempre più isolati, bullizzati, dipendenti dal web, fragili. Fra i fenomeni più grandi di “addiction” si segnalano il “gaming”, il gioco d’azzardo, i social network e il cybersesso. Ci sono vittime predestinate di atti di bullismo, più frequenti nei piccoli (11-13 anni) e nelle ragazze. Fra i 15 e i 19 anni, il 45% dei ragazzi dice di essere stato vittima di cyberbullismo o aver rischiato di esserlo e il 30% è stato autore di cyberbullismo. Questi dati sono drammaticamente in crescita.
Qualche giorno dopo la pubblicazione della relazione parlamentare è stata diffusa l’indagine condotta dall’associazione nazionale Di.Te (Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullismo) in collaborazione con il portale studentesco Skuola.net su un campione di 2.510 ragazzi e ragazze.
Il report racconta di giovani sempre più isolati con una preoccupante assenza di amici in carne ed ossa: il 26,8% non ha legami significativi coltivati regolarmente con incontri al di fuori delle piattaforme digitali. Il 14,4% fa fatica ad incontrare i propri amici dal vivo e tende a non uscire di casa. “L’influsso del digitale è evidente in questo scenario: il 49,3% dei giovani ammette di sentirsi influenzato da ciò che vede sui social media, mentre il 34,2% si sente spesso triste e insoddisfatto dopo un uso prolungato delle piattaforme sociali” si legge nel documento.
Proprio qui risiede la chiave dell’apparente contrasto tra la ricerca del benessere fisico e il malessere mentale: “Infatti il 36% del campione ammette che il rapporto con il proprio corpo è legato a doppio filo con i modelli proposti dai social”. La percezione dell’influenza negativa dei social varia notevolmente tra i generi: se tra le ragazze è il 65% a sentirsi condizionata dal web, tra i ragazzi ci si ferma al 31%. Questo è il quadro drammatico della situazione nel nostro Paese. All’estero, il contesto, nella sostanza, non cambia. I dati sono allarmanti ma le ricette divergono parecchio.
C’è incertezza, forse ancora troppa sottovalutazione della drammaticità dello scenario giovanile. Fatto sta che proprio nelle ultime settimane, due paesi alle prese con questa delicatissima tematica, hanno adottato due modelli diversi, per non dire opposti. Il governo australiano ha deciso di vietare ai minori di 16 anni i social network: l’obiettivo è di proteggerli dai danni potenziali di cui possono essere vittime. In Estonia, negli stessi giorni – ricordiamoci che un recente rapporto dell’Ocse ha definito il sistema scolastico estone il migliore d’Europa – si spinge per la digitalizzazione totale di tutta la popolazione e non esistono limitazioni di età all’uso degli smartphone.
Fanno parte del nostro modo di vivere e la scuola non è una bolla, sostiene il Ministro dell’Istruzione estone Kallas. “Sulle nuove regole australiane si può discutere – dice la Kallas – ma il nostro punto di vista è che la responsabilità nel caso, ricade sui genitori”.
Chi è nato alla fine del secolo scorso o all’inizio di questo III millennio, si è ritrovato in mano questo “arnese” e cioè lo smartphone, per cui sembra ben difficile ormai sradicarlo dalle mani dei giovani. Certo che sarebbe auspicabile che fossero i genitori a fare in modo che un adolescente faccia un uso consapevole del cellulare, ma sappiamo bene che Internet ha aperto una prateria che non conosce confini e in questo territorio tutti corrono per accaparrarsi dei pezzi come fu nel Far West all’arrivo dei primi coloni, ha scritto Massimo Piombo.
Prima di legiferare bisognerebbe, secondo Daniela Hamaui, porsi alcune domande. La prima è la seguente: chi sono oggi i sedicenni? Bambini a cui basta vietare i social per cancellare i loro disagi? Oppure giovani adulti che in molti paesi già votano, guidano l’automobile, hanno un conto corrente e sono indipendenti? I sedicenni, nativi digitali, usano computer e altri device che i loro genitori gli hanno messo in mano da quando erano bambini e troveranno sempre mille trucchi per aggirare i divieti.
La seconda domanda riguarda l’impegno che si erano assunti i proprietari delle piattaforme dei social network, alcuni anni orsono, di ripulirsi dalle fake news, dai post che istigano all’odio, al suicidio, all’anoressia e a tanto altro. Come mai i social network sono ancora pieni, zeppi di tale “immondizia mediatica”? La risposta purtroppo è banale: perché è sugli estremi che i social network guadagnano; è sulle risse, sugli scontri che creano interazioni che loro prolificano. Il problema dei contenuti senza moderazione rimane aperto e assolutamente da risolvere.
L’ultima domanda riguarda, infine, i genitori, la scuola, la società: siamo certi che invece di vietare, come fanno gli australiani, non sarebbe meglio educare, come fanno gli estoni? Basterebbe introdurre un corso di educazione digitale fin dalle scuole elementari.
I giovani dovrebbero essere dotati di strumenti per capire a quali rischi sono esposti mentre navigano nella Rete. Bisognerebbe spiegare loro la differenza tra una notizia vera e una falsa, come riconoscerla. Come interagire con gli altri senza sopraffazione, senza diventare vulnerabili, fragili, isolati e manipolabili. Vietare i social può sembrare una soluzione forte e semplice ma rischia di spazzare via anche quello che c’è di positivo nella Rete: la straordinaria opportunità di un accesso alla conoscenza e ai saperi che nessuna generazione precedente ha mai avuto. Bisogna aprire un dibattito pubblico su questo tragico tema, coinvolgendo i membri delle tre comunità più importanti di tutti i processi educativi: la famiglia, la scuola, la chiesa.
Riccardo Rossotto