Le notizie sul caso di Ciro  Grillo e dei suoi amici, ancora solo accusati di violenza su una diciottenne il 29 aprile a Campobello di Mazara (stupratori difesi  dal padre della vittima a sua volta minacciato dagli stessi) e sugli altri  quattro che, a distanza di poche ore, hanno ripetuto l’eroico gesto ai danni di un’altra diciottenne a Trapani, stanno occupando le cronache in questi giorni ed impongono di andare oltre la notizia e ripensare a quella che è stata definita  “la cultura dello stupro”.

È una definizione coniata dagli studiosi di genere per spiegare la tendenza a minimizzare la violenza sessuale o a normalizzarla come se fosse un fatto ineluttabile. Qualcosa che scaturisce dall’inevitabile convivenza delle donne con gli uomini, e dalla ricerca naturale dei secondi di avere rapporti sessuali con le prime, anche se queste non sono d’accordo. Come fosse un diritto.

E una delle prove che lo stupro sia una cultura consiste, intanto, nell’assenza del profilo in criminologia (lo stupratore può essere l’immigrato clandestino, il balordo nel vicolo, il campione di boxe, il grande regista, il produttore cinematografico) e anche nell’esistenza di milioni di uomini a cui non verrebbe mai in mente di commettere uno stupro, anche se solo alcuni di questi, purtroppo, si ribellano attivamente all’idea che si tratti di un fatto della vita.

Ed infatti la violenza sulle donne ha radici antiche che profondamente influenzano anche la nostra attuale “cultura” (sic!)  dimostrandone l’inciviltà.

Iniziamo dal sussidiario delle elementari che riporta la leggenda del ratto delle sabine senza una sola parola di condanna di un rapimento di donne a fini “procreativi”.

Passiamo all’affermazione di Ovidio “vis grata puellis” e ai racconti (mai commentati con scopi educativi) di donne diventate bottino di guerra a disposizione di chi, dopo aver vinto l’esercito nemico, razziato e distrutto le sue proprietà infliggeva (ed infligge) ai vinti l’estremo disonore prendendosi le ultime cose, le donne appunto che, rapite e violate diventavano macchia di infamia per l’uomo.  Perché il bene giuridico protetto non era il diritto a non essere violentate ma il loro onore che è un bene di cui non possono disporre perché simbolo di interessi collettivi e familiari sui quali non hanno influenza. Portatrici di onore per conto terzi.

Giungiamo poi alle poche testimonianze che abbiamo di processi che hanno avuto rilevanza pubblica come quello “subito”, nel 1612, da Artemisia Gentileschi che, per ottenere la condanna per stupro di Agostino Tassi, pittore nella bottega del padre, è passata alla parte dell’imputata avendo dovuto confermare, sotto tortura (!) di non essere stata consenziente: si è difesa? ha gridato? ha riportato ferite o ecchimosi? E soprattutto, era vergine?

Le domande poste ad Artemisia si ripetono nel tempo, come prova Enzo Ciconte ne “Storia dello stupro e di donne ribelli” che ha studiato gli atti dei processi in Italia e Francia dal 1700 alla prima metà del ‘900.  Ebbene, i giudici (tutti maschi che giudicano maschi con la stessa cultura) ripetono, alle donne “ribelli”, che avevano il coraggio di denunciare, proprio quelle domande e chiamano testimoni per provare che la vittima fosse di onorati e morigerati costumi o, meglio, vergine. Solo in questi casi si poteva sperare di avere giustizia.

Le “costante giurisprudenza” si basava   inoltre sull’assioma che se una donna decideva di rendere pubblica la violenza subita, rifiutando il matrimonio riparatore o il risarcimento in denaro, con la certezza di essere marchiata a vita e di non poter più trovare un uomo probo che la volesse sposare, non poteva che essere vero.

“la donzella che patì violenza, ove l’infortunio sia conosciuto al pubblico, sarà bersaglio delle dicerie dei maligni: troverà in sé depresso il sentimento della propria dignità ed incontrerà più o meno ostacolo ad un conveniente collocamento. “E lo stesso valeva per la donna sposata che “vedrà spesso raffreddarsi verso di lei la riverenza dei figli e l’amore del marito arrivando al completamento della propria rovina”.

E la regina Maria Antonietta, come racconta Voltaire, respinge l’accusa di stupro di una donna con una semplice dimostrazione: “prese il fodero di una spada e, continuando a muoverlo, mostrò alla dama che non era possibile infilarvi dentro la spada”. Quindi se la donna si difende (e grida) lo stupro non può avvenire, semplice.

È dunque con questo pensiero che arriviamo al 1913 quando una sentenza della Corte di Appello di Catanzaro conferma l’assoluzione dell’imputato con la motivazione che “per quanto debole la donna, tenendo le gambe serrate riesce molto difficile all’uomo di riaprirle”. Come non pensarci: accavallare le gambe, ecco il segreto per non essere stuprata!

Questo precedente in termini  deve essere stato presente nella mente dei giudici della cassazione che, nel 1998 con la decisione  numero 1636, hanno annullato la  condanna per violenza sessuale perpetrata da un istruttore di guida di 45 anni ai danni di una diciottenne durante una lezione  perché la ragazza indossava i jeans perché è “dato di comune esperienza” (?!) , che è quasi impossibile sfilare, anche in parte, i jeans  ad una persona senza  la sua fattiva collaborazione perché trattasi di un’operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa”  e dunque è chiaro che la ragazza  “non si è opposta con tutte le sue forze” ed è inoltre “illogico affermare che una ragazza possa patire uno stupro, che è una grave offesa alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica”.

Ergo, o ti fai uccidere come Maria Goretti e puoi ambire alla santità per aver difeso la tua virtù oppure ci stavi, ti è pure piaciuto e poi ti sei pentita per chissà quale motivo.

Ci chiediamo se la giovane in questione abbia anche avuto l’aggravante, come dice Beppe Grillo nel suo disgustoso video a difesa del figlio, di aver atteso ben otto giorni prima di denunciare quell’uomo di 27 anni più grande di lei, che poteva esserle padre ma che ha avuto un rapporto ovviamente consenziente.

Eppure, la legge n. 66 del 15 febbraio 1996 parla chiaro “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a subire o compiere atti sessuali è punito…”.

Nessun comma fa cenno all’obbligo di difendersi “con tutte le proprie forze” così come non è vietato tenere un atteggiamento passivo durante la violenza. E non ci sono attenuanti per lo stupratore se la donna era ubriaca, o aveva la minigonna o se ha deciso di fare sesso con un ragazzo in una villa in Sardegna perché non si può presumere che voglia farlo con gli altri. E del suo stile di vita precedente alla violenza deve rendere conto solo a sé stessa. 

Invece, secondo una rilevazione Istat del 2019, nel nostro paese persiste il pregiudizio che addebita alla donna la responsabilità dello stupro per il modo di vestire (23,9% degli intervistati) o se sotto effetto di droghe o alcool (15,1%) mentre Il 39,3% degli intervistati ritiene, come Maria Antonietta nel ‘700, che una donna sia sempre in grado di sottrarsi ad un rapporto sessuale se non lo desidera davvero.

Duemila anni di cultura dello stupro dimostrano allora che occorre oggi andare oltre l’art. 609 bis del codice penale, oltre la “violenza, minaccia e abuso di autorità” ed introdurre, così come previsto dall’art. 36 della Convenzione di Istanbul ratificata nel 2013 dal nostro Parlamento, il principio del consenso che “deve essere dato volontariamente, quale libera manifestazione della volontà della persona e deve essere valutato tenendo conto della situazione e del contesto”

Amnesty International si è fatta portatrice di questa istanza con la campagna #Iolochiedo perché occorre promuovere la cultura del consenso inteso come condivisione e rispetto.

Occorre cambiare gli atteggiamenti sociali basati sulla discriminazione di genere e sulle relazioni di potere di genere. Lo stupro deve essere inteso come violazione dei diritti umani perché le vittime sono violate nel loro diritto alla vita, alla salute fisica e mentale, all’uguaglianza all’interno delle famiglie e davanti alla legge.

Occorre pretendere nuove pratiche volte a trasformare leggi, politiche e atteggiamenti alla base della violenza sessuale.

E il modo per arrivare alla consapevolezza del rispetto parte come sempre dalla scuola e dall’educazione rivolta alle bambine e alle ragazze che devono essere consapevoli di essere uguali ai maschi, di essere libere di vivere come meglio credono avendo sempre il diritto di dire NO. Ma anche e soprattutto ai bambini e ai ragazzi ai quali è necessario insegnare che lo stupro non è un’azione virile e coraggiosa, non esprime la vitalità e la forza di un uomo. Al contrario, mostra la sua intrinseca debolezza, la sua fragilità e frustrazione. Chi usa violenza è un uomo mediocre e vigliacco che aggredisce nascondendosi e usando la forza fisica.

Non proteggiamo le nostre figlie, educhiamo i nostri figli.

Cinzia Gaeta

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