In tempi particolarmente difficili, e quelli che viviamo lo sono di certo, è spesso riscontrabile un’avvilente confusione tra verità e propaganda, tra ideali e opportunismo politico, tra informazione e disinformazione. È proprio muovendo da questa consapevolezza che cercherò di affrontare la questione sino-taiwanese che, come la questione israelo-palestinese, da oltre settant’anni oscilla tra speranze di intesa e timori di guerra. Corriamo veramente il pericolo di una guerra tra Cina e Taiwan che, per il peso dei protagonisti a vario titolo coinvolti, rischierebbe di essere di gran lunga più disastrosa di quelle in essere in Ucraina e a Gaza?
Credo che il punto più corretto dal quale far partire questa opinione sia stato indicato da un atipico politologo, il pontefice, secondo il quale è in atto un riallineamento globale che possiamo tranquillamente chiamare guerra, fatto di bombardamenti qua e là, attacchi cibernetici sempre più frequenti, atti di terrorismo, sanzioni economiche, battaglie commerciali, imbavagliamenti della stampa, censure, repressioni e via elencando. È in questo scenario che si colloca la questione sino-taiwanese, una questione che va affrontata con realismo che, pur essendo una scuola di pensiero eterogenea e non esente da criticità, rimane pur sempre una chiave di lettura importante per comprendere il divenire storico.
Nel 1949, la guerra civile tra i nazionalisti del Kuomintang e i comunisti di Mao Zedong si concluse in Cina con la vittoria di questi ultimi. Chiang Kai-shek, che in quel momento guidava la Cina e il Kuomintang, ebbe la peggio e si rifugiò a Taiwan, dove diede vita alla Repubblica di Cina, riconosciuta dall’Onu e dal mondo intero fino al 1979, quando le posizioni si ribaltarono: l’Onu riconobbe la Cina di Pechino ed estromise Taiwan dall’organizzazione. È da quel momento che cominciarono le ostilità.
Oggi Taiwan è riconosciuta solo da sei Paesi su 192 come Nazione indipendente. Non la riconoscono nemmeno gli USA che, tuttavia, sottoscrissero nel 1979 un Trattato – Taiwan Relations Act – col quale garantivano un supporto militare e la difesa di Taiwan in caso di attacco esterno. Tra alti e bassi, i rapporti tra Cina e Taiwan rimangono ancora oggi complessi, in uno sfiancante intreccio di interdipendenza economica e allontanamento culturale, fascinazione della cultura cinese e rifiuto del Partito Comunista, velleità belliche e voglia di stabilire relazioni informali. Una complessità non necessariamente negativa, visto che la cultura cinese, matrice di entrambi i contendenti, è riuscita a volgere in positivo anche la contrapposizione tra confucianesimo e taoismo. Il vero problema è che la complessità diventa complicazione a causa dell’ambiguità americana, in virtù della quale l’egemonia cinese, riconosciuta dal diritto internazionale, non diventa pieno potere.
Paradossalmente, la “cinesità” di Taiwan è negata proprio da chi, sbarcando sull’isola dopo la sconfitta nella guerra civile, la imposero con la forza alla popolazione autoctona, negando ad essa la sovranità. Tuttavia, la frattura non è netta, soprattutto perché la “politica dei tre no” – nessun contatto, nessuna negoziazione, nessun uso della forza – è stata di fatto abbandonata dalla leadership taiwanese: i contatti sono in crescita e lo dimostrano i giovani taiwanesi che studiano in Cina e i flussi turistici tra le due parti; è grazie a negoziati che migliaia di piccoli imprenditori taiwanesi hanno proprie attività in Cina da oltre trent’anni, godendo di mano d’opera a basso costo. Il rifiuto della forza è accettato da tutti, non solo dalle due parti in causa. Inoltre, entrambi i contendenti dichiarano di fare propri i “Tre principi del popolo” di Sun Yat-sen, padre fondatore del Kuomintang nel 1912: indipendenza della nazione, democrazia parlamentare e socialismo agrario. Sul secondo principio, tuttavia, vi è una diversa interpretazione tra Partito Comunista cinese e Kuomintang.
Alla ricerca di un’intesa, c’è stato anche uno storico incontro a Hong Kong nel 1992, a conclusione del quale Taipei e Pechino concordarono sull’esistenza di “un’unica Cina”, senza però risolvere il dilemma legato alla sua sovranità. Il cosiddetto Consenso del 1992 rappresenta ancora oggi per la Cina la base delle relazioni bilaterali, ma Taipei lo ha di fatto sconfessato, al punto tale che nel 1991 la Costituzione della Repubblica di Cina – così Taiwan è ancora chiamata nei documenti ufficiali – è stata modificata limitando il proprio territorio a Taiwan e alle isole periferiche. Ciò da un lato sembra essere la rinuncia definitiva all’obiettivo – cullato per tutta la vita da Chiang Kay-shek – di assorbire la Cina continentale, dall’altro fissa un principio di sovranità su Taiwan e le altre isole dell’arcipelago che renderebbe di fatto un eventuale intervento armato della Cina una violazione della sovranità e dell’integrità territoriale di Taiwan.
Al di là di queste difficoltà, la Cina sembra fortemente motivata a riprendersi Taiwan, non solo perché “di Cina ce n’è una sola”, ma anche perché l’isola può essere una potenziale base militare americana a soli centocinquanta chilometri dal continente. Credo di poter affermare che questo sia il vero motivo per volerne il ritorno a casa, perché avere il nemico fuori della porta di casa, che va su e giù per il Mar Cinese Meridionale e il Mar Cinese Orientale, non è considerato piacevole. Non dimentichiamo che, per lo stesso motivo, gli Stati Uniti hanno “fatto a botte” con la Gran Bretagna per la conquista del Canada, con la Spagna per Cuba, hanno acquistato l’Alaska dai russi e hanno minacciato un conflitto nucleare per i missili russi a Cuba. Questi precedenti contribuiscono a rendere incomprensibile l’orientamento degli Usa teso a contrastare l’obiettivo cinese di non avere portaerei di Paesi ostili nel mare di casa.
Oltre alla difesa “della libertà e della democrazia”, per la quale sono state combattute e perse le guerre in Vietnam, Corea e Afghanistan, gli Usa sono intenzionati a schierarsi dalla parte di Taiwan perché quest’isola ha un immenso valore strategico: più di un terzo degli scambi globali di merci passa per il Mar Cinese Meridionale! Per avere il controllo di questo mare è necessaria Taiwan, “Il luogo più pericoloso della Terra”, come l’ha definita The Economist. Queste difficoltà non incidono sulla determinazione del presidente cinese Xi Jinping che non perde occasione per affermare che “il compito storico della completa riunificazione della madrepatria deve e sarà sicuramente portato a termine”. La volontà è di portarlo a termine entro il 2049, centenario della nascita della Repubblica Popolare Cinese.
Viene però da chiedersi perché la Cina non abbia assolto questo compito in momenti storici che parevano oggettivamente più propizi, per esempio durante il “Terrore Bianco”, il periodo di legge marziale durato 38 anni e 57 giorni durante il quale i popoli aborigeni furono vessati e trucidati per mano della polizia segreta del Kuomingtang, con l’esplicita condanna di Washington e del mondo occidentale. Perché non è stato fatto alla morte del dittatore Chiang Kay-shek, momento di inevitabile sbandamento del Kuomingtang? Perché non viene fatto negli anni che stiamo vivendo, nei quali gli Stati Uniti sono impegnati su altri fronti – Ucraina e Gaza, soprattutto – e gli arsenali militari non sono certo stracolmi di armi?
La risposta a questi interrogativi la possiamo trovare nel ventesimo Congresso del Partito Comunista Cinese, nel corso del quale Xi Jinping affermò che la Cina intendeva incorporare Taiwan conquistandone non il territorio, ma il cuore e la mente dei taiwanesi. Ma la bellezza di queste parole, che sembrerebbero l’applicazione di una dei precetti di Sun Tzu: “L’arte suprema della guerra è di sottomettere il nemico senza combattere”, viene come sporcata dalla successiva precisazione che Pechino “non rinuncerà mai all’uso della forza” se essa sarà necessaria per riportare a casa la bella Formosa.
Al di là delle affermazioni congressuali, la Cina sembra poco disposta a correre il rischio di un conflitto con Taiwan per diversi motivi. Il primo motivo è che la Cina ha bisogno di altri vent’anni, se tutto va bene, per trasformare ogni cinese in un consumatore, obiettivo che consentirebbe di trasformare il popolo cinese nel più vasto mercato del mondo. Il raggiungimento di questo obiettivo necessita di un contesto internazionale stabile, ma le guerre sono contro la stabilità! Che questo obiettivo abbia la precedenza su tutto è dimostrato anche da un accordo, tutt’altro che tacito, tra la leadership e la popolazione: l’estensione a tutti di un relativo benessere in cambio dell’affidamento alla Stato del problema dei diritti civili.
Un altro motivo, più difficile da digerire data l’immagine di dittatura della Cina, è che è più semplice iniziare una guerra quando il potere è nelle mani di un ristretto numero di persone, ma i complessi equilibri interni allo Zhongnanhai, il palazzo del potere di Pechino, sono maggiormente bilanciati rispetto a quelli del Cremlino. I pregiudizi e la propaganda occidentale rendono inverosimile questa sorta di centralismo democratico interno al Partito Comunista Cinese, ma nulla possono contro l’evidenza che anche in Cina si sta formando una classe di ricchi che nulla hanno da guadagnarci dalla guerra. L’immagine è un ulteriore fattore da considerare. Un conflitto armato di aggressione conferirebbe alla Cina una patente di Paese inaffidabile che vanificherebbe in un colpo solo gli sforzi di Xi Jinping tesi a scrollarsi di dosso l’immagine negativa che si è consolidata nel tempo. A questi sforzi appartiene la mancanza di un esplicito aiuto alla Russia nella contesa contro l’Ucraina e la Nato.
C’è inoltre da aggiungere che il patto sociale operante in Cina – parziale e temporanea rinuncia alle libertà civili in cambio di un benessere diffuso – fa presa su una parte crescente di taiwanesi, in particolare sulle componenti aborigene, contrariamente a quanto si possa evincere dal risultato delle ultime elezioni. Un’azione di forza promossa dalla Cina sarebbe vissuto come un tradimento da parte di quella fetta di popolazione taiwanese che potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nella ricerca di un’intesa pacifica. Ma esistono realmente le condizioni?
La Cina ha sostenuto in più occasioni che a fronte della disponibilità a una riunificazione pacifica offrirebbe precise garanzie: autonomia in campo legislativo, amministrativo e giudiziario, oltre al mantenimento di proprie forze armate. Credo che di più non possa promettere. La riconquista di Taiwan può avvenire anche attraverso vie più soft della guerra: una discreta promozione di iniziative culturali tradizionali, supporto a iniziative economiche comuni, appoggio a politici più disponibili e a movimenti pacifisti, e altre ancora. È ciò che, nei fatti, sta già avvenendo, a conferma che a volte il volere del popolo non si identifica con le scelte della classe dirigente. È poca cosa, ma conviene segnalarlo: sono oltre cinquecento mila le coppie miste che si sono già formate.
Non è nemmeno da escludere che gli Stati Uniti, contrariamente al trattato sottoscritto, possano decidere di non coinvolgersi in una guerra Cina-Taiwan decisione che avrebbe un costo per la Cina: concessioni nel Mar Cinese Meridionale e in quello Orientale, oppure un sostegno della Cina a processo di denuclearizzazione della Corea del Nord.
Anche Taiwan avrebbe interesse a evitare la guerra. Essendo una piccola nazione insulare, importa il 70 per cento del cibo e la maggior parte delle sue risorse energetiche. Un blocco navale causerebbe un inevitabile arresto della sua economia e produrrebbe una carenza di scorte alimentari su larga scala. Rimane il problema dei diritti civili e la paura dei taiwanesi di perderli. Problema importante che va visto nella giusta prospettiva: una fetta della popolazione cinese ha raggiunto la sicurezza economica della popolazione taiwanese e, se non si verificano grandi sconvolgimenti, il giorno che tutta la popolazione cinese raggiunga la stessa sicurezza non è lontanissimo. Quel giorno ci saranno un miliardo e mezzo di persone che pretenderanno cose alle quali oggi non pensano neppure. È questo che dovrebbe tranquillizzare i giovani taiwanesi: quel giorno, la lotta per i diritti civili la faranno insieme cinesi e taiwanesi.
Napoleone disse: “Preferisco un generale fortunato a uno bravo”. Al generale fortunato, io penso che si debba preferire il buon senso e che i Paesi debbano essere guidati da capi responsabili, coscienti degli effetti delle proprie decisioni, e non da ubbidienti servi dei poteri occulti. La luce delle lampadine va e viene, come quella della ragione. Con una differenza: l’interruzione della prima provoca disagi, l’interruzione della seconda provoca disastri.
Mario Grasso