Demetrio Salvi è uno sceneggiatore e, per anni, è stato insegnante di sceneggiatura e regia. Vive e lavora a Napoli, mentre la scuola di cinema dove insegnava era a Roma. A un certo momento ha smesso di farlo: prendere un treno, ma anche una nave o un aereo gli è impossibile. Gli capitava, infatti, di sentirsi male. Di cosa si trattava? Perché ogni volta stava male? Col tempo, e poi una volta, come ci dirà, platealmente, ha scoperto di essere elettrosensibile, cioè sensibile alle emissioni, invisibili ma potenti, delle tecnologie wireless.

Per cui i cellulari, i computer, gli ambienti come i treni, gli aerei, i cinema e così via che ne sono saturi, lo fanno star male. Apprenderemo, tra le altre cose, che non è il solo e che da vent’anni esiste in Italia una Associazione Elettrosensibili Italiana. Su questa sua patologia, Demetrio Salvi ha scritto un libro autobiografico “Un tipo elettrosensibile”, pubblicato dalla casa editrice ligure Oltre Edizioni, in cui testimonia questa sua patologia. Ci è sembrato utile e interessante, intervistarlo a riguardo.

Demetrio Salvi, correggimi se sbaglio: questo tuo libro è il primo a trattare in Italia un argomento così delicato come i danni prodotti dall’elettromagnetismo, visto che tutti noi siamo alle prese quotidianamente con smartphone, computer, televisioni e quant’altro?

Sì, è il primo romanzo autobiografico. Testi tecnici e scientifici, ovviamente, ce ne sono: il mio mira a mettere in evidenza, in modo minuzioso, quelli che sono stati i riversamenti – non proprio piacevoli – sul mio corpo ma anche sulle mie relazioni con parenti, amici, colleghi, sulla mia attività professionale (in parte deflagrata), sugli incontri, spesso problematici e non risolutivi, con medici, con specialisti, con psicoterapeuti.

Era l’unico racconto per me possibile (non sono un medico né uno scienziato) ma anche il tassello mancante per rendere conto di una sindrome bizzarra, eppure terribilmente ovvia come la mia. Se cuore, cervello, cellule rispondono ad impulsi elettrici com’è possibile che l’aggressione di continue e violente onde elettromagnetiche non interferisca col nostro sistema e non ci faccia male?

Sì, mi sembra importante sottolineare che a parlarne non sia uno scienziato, ma uno scrittore e insegnante che ha provato sulla propria pelle gli effetti di questo mostro invisibile. Come ci sei arrivato?

Come sono arrivato a capire che, la mia, fosse elettrosensibilità, dici? Per me è stato semplicissimo: il rapporto causa-effetto è stato palese. Il tutto è partito dal rispondere, in vivavoce, a una telefonata. Ho spostato, con l’indice, l’icona per attivare la comunicazione e il cellulare è… esploso. Certo, non letteralmente. Fatto sta che sono stato colpito da un’onda che mi ha fatto fare un salto di due metri, mi ha tolto il fiato, mi ha annichilito completamente, mi ha provocato una sensazione di morte imminente dolorosissima.

Che tutto partisse dal cellulare era evidente. Mi sono illuso che sarebbe bastata qualche ora per riprendermi ma non è andata così. Ho peggiorato progressivamente e la mia sensibilità ai campi elettromagnetici è aumentata in modo esponenziale. Per migliorare parzialmente, molto parzialmente, la mia condizione, ho dovuto aspettare due anni. Ma è, questa, una realtà irreversibile, il mio Dna è mutato definitivamente.

Eppure, quello che ora trovo più spaventoso, è sapere con assoluta certezza che molta gente soffre della stessa sindrome ma non riesce a darle un nome: i medici che ho incontrato non ne sanno niente e, allora, relegano il tutto a qualche misterioso problema mentale, confondendo drammaticamente elettrosensibilità con stati d’ansia, se non con attacchi di panico. E, allora, giù con ansiolitici e psicofarmaci.

Secondo te perché viene sottovalutato il rischio? O per prenderlo in considerazione è necessario prima avvertirlo sul proprio corpo?

L’elettrosensibilità è una malattia la cui presenza infastidisce tutti coloro che non ce l’hanno o che non sanno di averla: nessuno ama sentirne parlare. Sapere che certi oggetti “meravigliosi”, a partire dal cellulare, nascondano, in qualche modo, effetti pericolosi, be’, non fa piacere a nessuno. E se a questo aggiungiamo che i poteri forti del nostro contemporaneo trovano proprio in tali oggetti la gallina dalle uova d’oro, allora il cerchio si chiude perversamente. Da un lato c’è chi non vuole sapere, dall’altro c’è chi non vuole farci sapere. Perfetto, no? Le conseguenze, però, sono atroci, molto più che drammatiche.

A farne le spese, ahimè, saranno soprattutto le nuove generazioni, i nostri figli, i nostri nipoti… Anche perché le ricadute, il più delle volte, non sono immediate. I danni possono impiegare anche vent’anni per emergere, per scatenare i loro pericolosissimi effetti. E per quanto io sia il primo a non voler essere pessimista, pure certe notizie mi mettono in ansia e, senza voler procedere con semplici equazioni, pure m’insospettisco a leggere che sono aumentati notevolmente gli infarti nella popolazione giovane e molto giovane.

Emerge dal tuo libro anche la scarsa cultura dei medici a riguardo, viste le loro reazioni quando ti sei presentato ad essi per una prognosi dei tuoi malesseri. Eppure esiste già da tempo in Italia un’Associazione Elettrosensibili!

L’Associazione ha più di vent’anni. Ma, vedi, di problemi legati all’elettromagnetismo se ne parla da almeno un secolo. Le centraliniste, ad esempio, già soffrivano di malesseri di questo tipo. E anche i radaristi ne sanno qualcosa: la malattia del radarista è conosciuta, e bene, a partire dalla Seconda Guerra Mondiale! La ricerca, però, a oggi, dà poche spiegazioni e sembra ingabbiata proprio da quello che ti dicevo prima. Soprattutto i produttori di strumenti che hanno a che fare con la telefonia mobile hanno un potere economico enorme e, in certi casi, riescono ad alterare i risultati delle ricerche o, comunque, a narrare una storia più comoda per i loro interessi.

Considero l’AIRC una realtà preziosa e inattaccabile della ricerca nazionale eppure, alla domanda se i cellulari possano provocare tumori, la risposta è secca: “No, le prove disponibili non sono sufficienti per affermare che vi sia un nesso, in particolare per i cellulari di nuova generazione”. Pochi righi più avanti (non pagine ma righi), però, trovi scritto: L’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) ha classificato le onde a radiofrequenza tra i possibili carcinogeni umani”. Ti rendi conto di quanta confusione generi questo atteggiamento? Soprattutto tenendo in considerazione l’organo che scrive queste cose. I medici, almeno quelli che ho incontrato io, e non sono pochi, o confessano candidamente di non saperne niente riguardo all’elettrosensibilità (e sono i più) o sono scettici oppure finiscono col sostenere le ipotesi più ottimiste. Il refrain che mi sono sentito ripetere è stato: se non c’è uno strumento per misurare il tuo malessere allora quel malessere non esiste.

All’estero, che tu sappia, esiste una maggiore coscienza medica su questo tipo di rischi e sulle necessarie difese?

Pochi Stati la riconoscono quale malattia anche se in Inghilterra, in Spagna e negli Stati Uniti ci sono cliniche specializzate che cercano, in qualche modo, di curare questa sindrome. In Italia prima la Regione Basilicata poi la Regione Calabria hanno riconosciuto l’elettrosensibilità come patologia anche se, qualche giorno fa, il Ministero si è opposto alla legge decisa da quest’ultima Regione su tale argomento per motivazioni – a quel che ne so – tecnico-amministrative. È, quindi, un caso che ciò sia accaduto proprio nel periodo in cui venivano aumentati i limiti massimi accettabili d’emissione delle onde elettromagnetiche, per favorire il 5G? Anche in questo caso, non voglio ricorrere a facili equazioni ma è innegabile che gli Stati abbiano interessanti ed evidenti vantaggi economici nel sostenere tali concessioni.

Tutti noi non possiamo più fare a meno dell’uso di smartphone, di computer, di salire su un treno o essere circondati da wifi o persone che girano con i loro aggeggi elettronici. Come se ne può uscire?

Immagino almeno tre livelli d’intervento e di soluzione. Uno, il primo, proprio personale, che riguarda l’uso intelligente di tutte le apparecchiature elettroniche. Se pensiamo al cellulare, che è l’oggetto che pratichiamo con maggiore frequenza e maggiore intensità, ci sono alcune abitudini che possiamo modificare facilmente. Non portarlo addosso – né nel taschino della giacca né nella tasca posteriore del jeans, ad esempio. Tantomeno tra casco e orecchio. Non utilizzarlo come sveglia e tenerlo sempre lontano dalla stanza da letto (so di ragazzi che lo ripongono sotto al cuscino!) Evitare, quindi, di giocarci e di utilizzarlo prima di addormentarsi.

E spegnerlo, quando possibile o, almeno, metterlo in modalità aereo. Disconnettersi, quando non ne abbiamo bisogno – e questo accade spessissimo – dalla modalità wi-fi e bluetooth. Evitare di portarlo all’orecchio e utilizzare sempre degli auricolari a filo. Anche il wi-fi domestico può essere spento e non tenuto in prossimità di dove si lavora, tantomeno dove si dorme. È possibile e facile utilizzare la connessione via cavo, non come alternativa ma proprio come modalità principale. Insomma, utilizzare il buon senso può scongiurare comportamenti pericolosi per la nostra salute. Poi c’è un secondo livello, che è quello più sociale perché se un condominio discute se mettere in cima al proprio palazzo un’antenna, un ripetitore, be’, almeno in quel caso, ci si può opporre. E si può scegliere, per i propri figli, una scuola dove l’uso del cellulare sia veramente vietato e dove tutto il sistema elettrico e di navigazione sul web sia cablato (è la stessa scelta che fanno i CEO della Silicon Valley che iscrivono i propri figli a costosissime scuole private dove la cosiddetta innovazione tecnologica non ha accesso).

Infine c’è un terzo livello, quello al qual sono giunto grazie anche al mio libro: partecipare a una battaglia che tenga in considerazione le Istituzioni e che non combatta contro la scienza o la tecnologia, ci mancherebbe!, ma che spinga le autorità a prendersi cura di tutti noi, che tenga conto del principio di precauzione, che limiti le emissioni di onde elettromagnetiche (invece che aumentarne i limiti di tollerabilità), che imponga a certi poteri forti di fare attenzione innanzitutto al nostro benessere, anche attraverso la comunicazione (che la smetta, ad esempio, di realizzare spot pubblicitari dove ci sono giovani e bambini che sono coinvolti in un uso sconsiderato di cellulari e wi-fi), uno Stato che ammetta chiaramente che l’elettrosensibilità è una malattia, che la certifichi, e che chiarifichi a se stesso che tale sindrome, ahimè, non è che la spia per ben altre malattie, talvolta fulminanti, che si manifestano anche in tempi lunghi e che aggrediscono sempre più i giovani. Certo, è necessario fare ricerca (e ricerca seria, non vincolata a chi, da certe realtà, ne trae o ne trarrebbe vantaggio) e che, nel tentativo di definire il rapporto tra le possibili cause di certe patologie (infarti, leucemie, tumori, Alzheimer e quant’altro), metta dentro anche l’eventualità che l’elettrosmog, in qualche modo, possa entrarci qualcosa…

Diego Zandel

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