Sono ormai decenni che un debito pubblico mastodontico rappresenta un macigno per lo sviluppo del Paese. Qualcuno lo attribuisce all’evasione fiscale, altri a un’amministrazione pubblica bizantina, pletorica e troppo onerosa, gonfiata da assunzioni clientelari di massa, altri ancora a scelte di sviluppo sbagliate. In questo articolo, Riccardo Rossotto, attraverso un’analisi approfondita e originale evidenzia la gravità del problema, che va affrontato non solo per allontanare l’incubo del default, ma anche per salvaguardare lo stesso sistema democratico. Che avrebbe difficoltà a permanere in un Paese stretto nelle mani dei creditori.
Tiriamo il fiato: Standard & Poor’s, la più influente delle agenzie di rating mondiale, ha confermato il suo giudizio sui titoli di stato italiani. Il nostro Paese tecnicamente è in tripla B con prospettive stabili: dunque ha evitato, per ora, un declassamento che sarebbe stato devastante per i nostri conti pubblici. Dopo una vigilia angosciata, il nostro Governo e in particolare il Ministro Giorgetti, possono tirare un sospiro di momentaneo sollievo. Abbiamo evitato la temuta bocciatura però nel giudizio di Standard & Poor’s vi sono, come vedremo, raccomandazioni precise e rigorose per la sistemazione dei nostri conti pubblici. Perché ci siamo messi nella spiacevole situazione di dover “pendere dalle labbra” delle agenzie di rating ogni anno?
Giorgia Meloni nelle scorse settimane è tornata su un vecchio mantra, usato anche in passato da altri nostri governi per scaricare la responsabilità della nostra cattiva reputazione sui conti pubblici a livello mondiale: esisterebbe, secondo questo mantra, un complotto mondiale… non si sa bene orchestrato da chi … che attiverebbe speculazioni mediatiche contro l’immagine dell’Italia e quindi sulla sua capacità di restituire il debito… con tutte le conseguenze immaginabili.
“Non c’è un grande complotto – ha detto con grande e ironica trasparenza l’ex Ministro dell’economia Giulio Tremonti – c’è solo un grande debito! Oggi il problema non è tanto se lo spread sia alto o basso ma l’ammontare del debito di per sé”. Un mostro sul quale prima o poi bisognerebbe che un governo si assumesse la responsabilità di metterci la testa e le mani, secondo l’autorevole economista. Oggi le ultime rilevazioni parlano di un debito complessivo di quasi 2900 miliardi di euro, con un costo degli interessi che nel 2024 potrebbe sfiorare i 100 miliardi di euro: un’enorme risorsa finanziaria che dovrà essere dirottata dagli investimenti per la crescita del paese invece a servire il debito.
Una tragica constatazione per un paese come il nostro che ha bisogno come il pane di investimenti pubblici e privati per alimentare la crescita del nostro Pil che dopo questo biennio positivo, il prossimo anno, nelle previsioni delle istituzioni internazionali, sarà di nuovo il peggiore, come crescita, rispetto a tutti gli altri paesi membri dell’UE, compresa la Grecia.
Come siamo arrivati a questa situazione?
La prima Repubblica, fino agli anni ’70, era in sostanziale pareggio di bilancio. Poi il debito incominciò a salire per giustificate ragioni legate proprio alla crescita del nostro Pil. La deriva iniziò negli anni ’80 quando la politica economica dei governi iniziò una degenerata rincorsa alla spogliazione delle casse dello Stato. Tra il 1993 e il 1994, contestualmente a Tangentopoli, iniziò, fortunatamente per noi, una lunga fase di riduzione dello stock di debito fino a quasi il 100% del Pil. L’entrata nell’Euro costrinse il nostro governo ad adottare una politica rigorosa dei propri conti che si tradusse proprio in questa riduzione.
Nel 2011 il debito arrivò al 117% del Pil, dopo la crisi del 2008: “Ricordiamoci che la causa di tale aumento non fu legata ad un incremento della spesa pubblica, ma ad una riduzione del Pil”, ci ricorda sempre Tremonti. Dal 2011 lo stock del debito sarebbe aumentato sempre: a fine 2019, prima della pandemia cioé, raggiunse i 2.409,9 miliardi (134,7% del Pil) rispetto ai 1.632 (102%) del 2008. In soli 11 anni quindi, tutti i governi che si sono succeduti alla guida del Paese, sia di Centro Destra sia di Centro Sinistra, sono riusciti ad accumulare ben 777 miliardi di nuovo debito, con un incremento del 47%!
Non dobbiamo dimenticarci che proprio a causa della disastrosa situazione dei nostri conti pubblici, nel settembre del 2011, l’allora governo Berlusconi, con Tremonti alla guida del Ministero dell’Economia, varò il disegno di legge costituzionale che prevedeva di introdurre il principio del pareggio di bilancio nella Costituzione, cosa che avvenne con la Legge costituzionale n. 1 del 2012: l’art. 81 recita: “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico”. Dal 2012 in avanti, nonostante tale previsione costituzionale, tutti i governi hanno trovato una valida quanto pericolosa ragione “per spostare la fatidica data del pareggio di bilancio in avanti, cosa che ancora oggi non è neppure all’orizzonte del 2026!” ha scritto Alberto Brambilla.
Le ragioni di tale “follia finanziaria”
La politica, negli ultimi anni, ha deciso di privilegiare gli aiuti o le detassazioni alle famiglie italiane, relegando le imprese ad un ruolo secondario come destinatarie delle risorse pubbliche. Ciò ha creato probabilmente un consenso politico a breve per il governo che aveva promosso iniziative e misure a favore dei nuclei famigliari italiani, dei consumatori. Ha però penalizzato le imprese e quindi la crescita del paese, non comprendendo che la restituzione di quell’immane stock di debito che abbiamo contratto come Stato italiano, si potrà ripagare soltanto se il nostro Pil potrà crescere attraverso investimenti, anche pubblici, legati alla produttività delle nostre imprese.
Le criticità italiane
Sono quattro i fattori che rendono strettissimo lo spazio di manovra dei nostri governi e quindi le prospettive di riuscire a ridurre il debito: l’Italia, come scritto nel documento programmatico di bilancio redatto per la Commissione Europea, (i) prevede una crescita nel 2024 più bassa, la peggiore in Europa; (ii) l’Italia ha il debito più alto in Europa dopo la Grecia; (iii) è uno dei paesi con il maggior deficit; (iv) è il paese europeo che paga la maggior quantità di interessi rispetto al Pil. Tutto ciò implica – come ha scritto Giorgio Barba Navaretti – grandi emissioni di nuovi titoli ogni anno che ci espone agli umori e alla volatilità dei mercati.
Ecco perché ad ogni scadenza in cui le agenzie di rating internazionali emettono il loro verdetto sulla solidità del nostro Paese e dei nostri conti pubblici, vediamo il nostro Governo passare giornate concitate, angosciate con risibili addebiti della situazione ai citati e presunti complotti internazionali. Dobbiamo essere consapevoli che ad ogni euro di quei quasi 2.900 miliardi di debito, corrisponde un creditore: soprattutto una grande percentuale di quei creditori è costituita da fondi internazionali che ovviamente valutano cinicamente la meritorierà di quel credito e quindi la solvibilità prospettica del debitore Italia. Lo osservano, gli controllano i conti, soprattutto, guardano che tipo di interventi il governo italiano ha in cantiere o programma di realizzare per ridurre quella massa di debito che invece ogni anno aumenta, al di là dei complotti, della pandemia o dei conflitti militari in atto.
Questo è il nocciolo della situazione e qui sta la sfida del nostro governo attuale e dei prossimi futuri. Quello che sorprende e preoccupa i grandi fondi internazionali è che se anche un governo con una maggioranza ampia e consolidata nelle due Camere come quello attuale, non riesce ad impostare una manovra economica con delle misure mirate alla riduzione del debito, il problema potrebbe diventare irrisolvibile… se non lo è già! La preoccupazione, e qui torniamo al rischio di una possibile bocciatura delle agenzie di rating, è che i governi italiani non considerino la riduzione del debito una priorità, ma si dedichino con maggiore attenzione a coccolare i propri elettori distribuendo privilegi, contributi, defiscalizzazioni ad ampio raggio.
Le prossime scadenze e la necessità di una nuova strategia
Nel prossimo mese di novembre arriveranno i giudizi anche delle altre agenzie di rating internazionale: Fitch (10 novembre) e Moody’s (17 novembre) Lo spread tra i BTP italiani e i Bund tedeschi gira intorno ai 200 punti ma è arrivato lo scorso anno anche a 240. Forse è necessario, a questo punto dell’analisi della nostra maggior criticità nazionale, chiarirci meglio il significato di due termini inglesi: spread, appunto, e rating. Questa testata ha pubblicato proprio in questi giorni un contributo di Giorgio Donna che auspica un utilizzo più razionale e condiviso di termini di origine inglese che fanno parte della cultura e del lessico del mondo economico e finanziario internazionale. Veniamo al significato dei due termini citati.
Lo spread è diventato un vocabolo abituale del nostro linguaggio dal 2011, durante la crisi del governo Berlusconi, quando toccò i 574 punti, con il rischio evidente di un declassamento del nostro debito.
Che cos’è lo spread? E’ il valore differenziale tra il costo dell’indebitamento dei Buoni del Tesoro tedeschi rispetto a quelli italiani: più la forbice si allarga, più il nostro debito evidenzia di avere la necessità di pagare interessi altissimi per poter ottenere una proroga o una nuova sottoscrizione da parte dei creditori. Lo spread è per sua natura, quindi, legato ad una valutazione sulla solidità di un paese e quindi al rating che viene assegnato periodicamente alle finanze pubbliche dei vari stati.
Che cos’è il rating?
È un giudizio espresso da alcune società specializzate sulla salute finanziaria delle istituzioni pubbliche (ma lo si usa anche per le imprese) che emettono obbligazioni sul mercato internazionale. Questa valutazione esprime la capacità degli emittenti di un’obbligazione di poter rimborsare il capitale alla scadenza e di pagare in modo regolare gli interessi pattuiti. I rating sono condotti con criteri standard e riguardano valutazioni nel breve e nel lungo termine sullo stato di salute del debitore. Solitamente insieme al rating viene scritto anche quello che viene denominato un Outlook (che può essere: stabile, negativo o positivo) che esprime le prospettive future del merito creditizio di cui si tratta. Esiste inoltre una classificazione convenzionale dei debitori con una linea di demarcazione tra le categorie di rating individuabile tra il giudizio BBB-/Baa3 e quello BB+/Ba1, dai Junk Bond (i peggiori debitori) a quelli più solvibili (3A).
Che fare?
Secondo Veronica De Romanis bisogna far crescere il Pil: “Per crescere è necessario affrontare in maniera strutturale i nodi che ingessano da decenni il sistema economico italiano, ovvero la produttività pressoché piatta, il mercato del lavoro poco dinamico e l’enorme stock di debito pubblico”. Secondo Lorenzo Bini Smaghi bisogna, in ogni caso, non mettersi più nella condizione di aspettare angosciati le reazioni dei mercati finanziari “Ma cercare piuttosto di anticipare e di comprendere da subito le loro preoccupazioni, anche sollecitando critiche costruttive”. Cosa preoccupa i mercati, secondo l’economista, lo si ricava proprio dalla lettura del NADEF, predisposto nei giorni scorsi dal Governo Meloni che evidenzia “In modo assai chiaro le sfide cui deve far fronte la finanza pubblica italiana per i prossimi anni: sfide soprattutto di natura politica”.
A pag. 95 del NADEF c’è una tabella che mostra l’evoluzione prevista del debito pubblico italiano rispetto al Pil dei prossimi 10 anni. Per evitare un aumento insostenibile del debito, è necessaria una manovra correttiva, immediata secondo Bini Smaghi, con una correzione di circa 1,8 punti di Pil, ossia di almeno 40 miliardi di euro nel biennio 2025-26. Il NADEF mostra anche che la manovra restrittiva non si può fermare al 2026, altrimenti il debito riprenderebbe nuovamente a salire verso il 150% del Pil.
L’analisi di Bini Smaghi si conclude con una proposta: “La sostenibilità del debito italiano richiede pertanto che nel prossimo decennio il surplus primario continui ad aumentare, anno dopo anno, fino a raggiungere il livello di oltre il 3% del Pil. Gli investitori italiani ed internazionali si chiedono legittimamente se tale sforzo sia realizzabile soprattutto dal punto di vista politico. Eventuali dubbi sulla volontà e sulla capacità di mettere in atto tali politiche potrebbe innescare reazioni più veloci e dolorose del previsto. Fugare questi dubbi è compito primario della politica”. E qui torniamo da capo: un governo con una consolidata maggioranza nelle due Camere e quattro anni davanti per impostare una rigorosa e assennata politica economica, come è quello attuale di Giorgia Meloni, deve mettere “la riduzione del debito” al posto numero 1 della lista delle priorità del Paese. Altrimenti l’ammontare del debito potrebbe addirittura contaminare la nostra democrazia, mettendoci nelle mani dei creditori a rischio di rimborso da parte di un debitore non affidabile.
Riccardo Rossotto