Domanda. Gli anni 1970/1972 sono anni decisivi per le sorti del mondo. Mi riferisco in particolare ad un fatto spesso dimenticato ritornato di attualità a seguito della crisi dei rapporti tra Cina, Taiwan e USA, e cioè alla ammissione della Repubblica Popolare Cinese all’ONU, avvenuta il 25 ottobre 1971. Un tema importantissimo, sia per gli equilibri mondiali, sia per il fatto che prima erano esclusi da tale consesso circa un miliardo di persone.
L’Incontro dell’ottobre 1971 dava conto, con particolare risalto, anche nel titolo, “La Cina nell’Onu: è la terza potenza mondiale”, della decisione dell’Assemblea Generale dell’Onu che ammetteva formalmente la Repubblica Popolare Cinese, espellendo, nel contempo, la Repubblica Cinese di Taiwan.
A tale risultato si era giunti a seguito di una battaglia politica e diplomatica durata molti anni, in quanto non si trattava solo di far entrare nell’Onu la Repubblica Popolare Cinese, ma di assegnarle il posto che aveva sino ad allora occupato Taiwan nel Consiglio di Sicurezza che, come è noto, si compone di cinque membri permanenti.
Anche gli Stati Uniti, strenui difensori di Taiwan in chiara ottica anticomunista, dopo alcuni anni, furono costretti ad ammettere che non aveva più senso che nel Consiglio di Sicurezza non sedessero i rappresentanti del paese più popoloso al mondo e quindi avevano accettato il fatto che il seggio di Taiwan al Consiglio di Sicurezza fosse concesso a Pechino; il che equivaleva, tra l’altro a riconoscere l’esistenza della Cina comunista.
Gli USA continuarono, viceversa, ad insistere affinché Taiwan rimanesse comunque rappresentata all’interno del Consiglio dell’ONU, in base al principio delle “due Cine”. Tale proposta era peraltro contrastata dalla Cina comunista che non poteva accettare la presenza di due Cine all’ONU, avendo sempre considerato Taiwan una mera provincia della grande Cina, temporaneamente occupata dai nazionalisti grazie all’appoggio militare americano.
Il giorno delle votazioni, una mozione promossa dall’Albania e firmata da altri Paesi, venne approvata anche con il voto favorevole dell’Italia e mentre usciva dall’aula il rappresentante di Taiwan, ne entrava quello della Cina Popolare.
L’Incontro concludeva il proprio articolo così: “La Cina Popolare, entrando all’ONU, diventa la terza potenza mondiale dopo gli USA e l’URSS. Esce da un lungo, ingiusto isolamento, infrange il monopolio russo-americano sui problemi della pace e della guerra, può usare il diritto di veto al Consiglio di Sicurezza, è in condizioni di svolgere un’importante azione politica e diplomatica ridando all’ONU autorità e prestigio oppure può creare una grave frattura in seno all’ONU e nei rapporti internazionali. Si tratta dunque di un evento storico di grande importanza, poiché darà finalmente una rappresentanza a 800 milioni di cinesi e conferisce all’ONU una quasi universalità (mancano infatti le due Germanie, Corea, Vietnam), senza la quale non può svolgere la sua missione”.
Mi fa piacere aggiungere che, proprio l’anno successivo, nel 1972, dopo ben 77 anni di ostilità, veniva firmata a Pechino la pace tra la Cina ed il Giappone, il suo grande nemico che l’aveva invasa all’epoca della seconda guerra mondiale. Vale la pena di rileggere in proposito le parole de L’Incontro dell’epoca (settembre 1972): “Il testo dell’accordo comprende un preambolo che definisce la normalizzazione un ‘punto focale’ nell’interesse dei due Paesi e parla della Cina e del Giappone ‘separati solo dal mare e uniti da un’amicizia tradizionale‘. E’ desiderio dei due popoli por fine a una situazione anormale. Il Giappone deplora il male fatto alla Cina durante la guerra e critica se stesso. Il Giappone accetta le tre regole della normalizzazione (sono regole fissate dai cinesi, riguardano Taiwan), dichiara di rispettare il regime della Cina e riconosce che, nonostante le differenze nella struttura sociale, la normalizzazione deve essere attuata. Si è così sicuri di ridurre la tensione in Asia e di contribuire alla pace nel mondo”.
In quell’area tormentata del mondo, dopo anni di guerre e massacri, finalmente spirava aria di pace, che, va detto, si è sinora mantenuta ben salda; anche se attualmente la questione della “riunificazione” di Taiwan alla madre patria, come preteso dalla Cina, potrebbe aprire una nuova grave crisi dagli esiti imprevedibili.
Domanda. Veniamo alle questioni rilevanti del nostro Paese. Invece dei riferimenti alla vita politica dell’epoca, intenderei soffermarmi su una importante riforma che venne approvata dal Parlamento nel 1970, al fine di affermare una maggior tutela dei diritti dei lavoratori. Mi riferisco alla legge n. 300/1970, nota a tutti come lo “Statuto dei Lavoratori”, che ha segnato un punto di svolta radicale nei rapporti di lavoro e nella tutela dell’attività del sindacato. Occorre ancora precisare che il maggior impulso alla applicazione senza riserve e/o resistenze della nuova normativa sarebbe avvenuto, pochi anni dopo, grazie alla introduzione della “riforma del processo del lavoro” (con la legge n. 533/1973), che avrebbe davvero consentito di passare dai diritti solo affermati per legge ai diritti applicati, nei casi concreti, con le sentenze dei Pretori del Lavoro.
Il rapporto tra lavoratore e datore di lavoro era ancora, in quegli anni, un rapporto molto squilibrato a favore del primo, nel senso che non era sufficiente essere un buon operaio o impiegato, ma la stessa vita privata del dipendente non doveva avere segreti per il datore di lavoro, che poteva decidere di assumere un soggetto o meno, così come di licenziarlo, in base alle informazioni, raccolte in segreto a suo carico, in merito ad orientamenti politici, religiosi, sessuali, ecc.
Grazie alla ventata riformista del 1968 ed all’attività del Ministri del Lavoro dell’epoca, Brodolini prima e Donat-Cattin poi, anche questi rapporti di forza mutarono e lo “Statuto dei lavoratori” divenne un efficace strumento di tutela dei diritti e degli interessi dei dipendenti. Senza voler entrare nel merito di tutte le norme della legge (che si compone di 41 articoli), basta osservare come già dal titolo primo, “Della libertà e dignità del lavoratore”, emergesse una rivoluzione copernicana rispetto al passato.
Veniva infatti stabilita la libertà di opinione dei lavoratori anche all’interno dei luoghi di lavoro; il divieto per le guardie giurate di entrare nei luoghi di lavoro per controllare l’attività dei dipendenti, così come l’utilizzo di sistemi audiovisivi per il controllo a distanza.
I lavoratori non potevano più essere sottoposti a ispezioni personali eccetto che in casi straordinari e non potevano più essere assunti provvedimenti disciplinari senza aver prima contestato l’addebito e sentito a propria difesa il lavoratore.
Come si è visto la nuova legge vietava poi esplicitamente al datore di lavoro di svolgere indagini sulle opinioni dei lavoratori prima e dopo l’assunzione. Il titolo secondo della legge è poi dedicato alla tutela del sindacato, garantendo al lavoratore il diritto di costituire, anche nel luogo di lavoro, associazioni sindacali e di svolgere attività sindacale, anche con assemblee interne all’azienda.
In definitiva, come affermato dal Ministro del Lavoro a conclusione del dibattito in aula, si trattò di un provvedimento destinato a segnare “un punto di svolta nei rapporti sociali in Italia”. L’Incontro del maggio 1970 uscì con un titolo significativo: “La battaglia per i diritti civili”, dedicando un articolo a ciascuno dei temi rilevanti che per anni il giornale aveva sostenuto, quali il divorzio, il Concordato, l’obiezione di coscienza, ai quali ora si aggiungeva anche lo “Statuto dei lavoratori”. Una nuova Italia era alle porte, anche se ciò non avrebbe fatto piacere a tutti: mi riferisco alle stragi fasciste di cui parleremo presto.