Si preannunciano tempi cupi. Tra inflazione, recessione, aumento delle bollette energetiche, possibili carestie, ritardi e blocchi delle catene di produzione e fornitura di molti prodotti, non si sa più dove sbattere la testa. Soprattutto non si riesce a capire come fronteggiare “questo uragano”(come lo ha definito il presidente della autorevole Morgan Stanley) che ci sta per piombare addosso.
Il tema centrale, e più delicato dal punto di vista economico e sociale, è quello della diminuzione della capacità di acquisto delle classi medio-basse, di un gran numero di lavoratori salariati quindi. La situazione in Italia non ha eguali. Siamo l’unico Paese europeo in cui negli ultimi quarant’anni i salari sono diminuiti (- 1,9%).
Una produttività tra le più basse d’Europa
La produttività degli ultimi dieci anni è stata nove volte più bassa della media europea. Con la Grecia condividiamo l’ultimo posto tra i paesi membri dell’Unione Europea per tassi di occupazione. Il dibattito politico, anche a Bruxelles, si incentra di conseguenza sulla necessità di introdurre in tutti i paesi un salario minimo. Una parte degli esperti economici ritirano però fuori un tema antico e ben conosciuto. La riduzione, o addirittura annullamento, del cuneo fiscale e contributivo, una misura da tempo in mezzo alle critiche, ma sempre alla fine accantonata per una serie di ragioni che proveremo a spiegare.
Che cosa è il cuneo fiscale e contributivo?
In parole semplici, è la differenza tra lo stipendio netto in busta paga e il costo sostenuto dall’azienda che comprende però imposte e contributi pagati da lavoratori e imprese e altri “istituti contrattuali”. Un esempio potrà rendere più chiara la situazione. Prendiamo un lavoratore con un reddito fino a 25mila euro (e cioè uno stipendio che riguarda circa il 75% dei dipendenti totali nel nostro Paese). Fatto 100 quello che il dipendente si ritrova in busta, il 9,2% circa lo paga in contributi pensionistici e sul restante 90,8%, paga il 15% di Irpef. Con deduzioni e detrazioni medie gli restano in tasca dei 100 figurativi, 77,18.
Al datore di lavoro, quel 100 pagato in busta al lavoratore, costa circa 130 per i contributi all’INPS (23,8) e per le prestazioni temporanee all’INPS (malattia, maternità, disoccupazione, ecc.) e all’INAIL per l’assicurazione contro gli infortuni. La differenza, dunque, tra netto percepito dal dipendente e costo aziendale è pari a 1,68 volte (il 130 pagato dall’azienda e i 77,18 netti al dipendente). Questo lo scenario su cui dobbiamo sviluppare i nostri ragionamenti. Come detto, il dibattito politico è incentrato intorno a due posizioni. Gli imprenditori rifiutano di incrementare le retribuzioni lorde paventando, in assenza di aumenti della produttività, importanti perdite di competitività.
Sono poche le risorse per ridurre il cuneo
Lo Stato, da parte sua, dichiara che non ci sono risorse per la riduzione del cuneo e quindi o si tagliano altre spese o si aumentano le tasse (per il segretario della CGIL Landini bisognerebbe introdurre una patrimoniale, chiamandola con un appellativo adeguato, per coprire il taglio del cuneo fiscale). L’indirizzo di pensiero che ritiene questa soluzione, e cioè la riduzione del cuneo fiscale e contributivo, la migliore per aumentare il peso della busta paga senza innescare la temuta spirale prezzi-salari, sta prevalendo in molti settori del nostro Paese, non solo in quelli confindustriali.
Il governo Draghi per poter scegliere in maniera coerente con i vincoli europei, deve individuare delle misure che salvaguardino l’invariabilità dei saldi di bilancio, non ricorrendo, nel contempo, ad aiuti di Stato. Quello che sorprende è che la riduzione del cuneo fiscale e contributivo è, in realtà, già in atto in ben otto regioni del centro-sud dell’Italia. Ci riferiamo alla cosiddetta “decontribuzione Sud”. Cioè la riduzione del 30% dei contributi a carico del datore di lavoro di cui al decreto dell’agosto 2020.
Decontribuzione Sud un esempio da perseguire?
La norma prevede il rifinanziamento fino al 2029 di questa misura, seppur con percentuali decrescenti. L’intervento di decontribuzione è già stato inserito nei saldi di bilancio inviati a Bruxelles ed approvati per gli esercizi 2020 e 2021. Stiamo parlando di circa 5 miliardi di euro di mancato gettito che va a beneficio di tutti i datori di lavoro delle otto regioni del centro-sud interessate dalla norma. Questa misura è a rischio di preventiva estinzione. Infatti la copertura, se non specificatamente riapprovata dal Parlamento, cesserà di avere esecutività il prossimo 30 giugno.
Naturalmente l’intervento legislativo dovrà essere coordinato con Bruxelles per evitare sanzioni. “Stiamo lavorando – ha detto a metà maggio il ministro per il Sud Mara Carfagna – sulla proroga di validità di questa norma in stretto coordinamento con la commissaria europea Ferreira”. A poco più di due settimane quindi dalla scadenza, il tavolo negoziale è aperto e la speranza è che si possa concludere positivamente. Non vanificando così un esperimento che potrebbe riguardare anche tutte le altre regioni italiane.
Aumentare il potere di acquisto e fare crescere i consumi
Certo, in ogni caso di riduzione parziale o totale del cuneo fiscale e contributivo, il governo deve individuare specificatamente dei recuperi di gettito o da riduzioni di spesa o da aumenti della tassazione. “Bisogna ridurre il cuneo fiscale – ha dichiarato l’ex responsabile di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti – I datori di lavoro pagano troppo e i lavoratori prendono troppo poco. Bisogna invertire questa tendenza. Da una parte bisogna lavorare per aumentare la competitività dell’azienda, dall’altra bisogna diminuire il costo del lavoro. Proprio su questo tema dobbiamo aumentare il potere di acquisto per far salire i consumi che potrebbero reinnestare il meccanismo di una ripresa virtuosa, forte e prospettica”.
Anche secondo Bonometti dovrebbe essere avviata subito una concertazione tra le forze sociali “Non per difendere un’ideologia in particolare, ma per proteggere la sopravvivenza dell’Italia e l’interesse dei cittadini”. Tra i tanti che si sono espressi su questa tematica, vale la pena registrare l’analisi dell’ex ministro del lavoro Maurizio Sacconi. “Il nostro è un paese anomalo, il più sindacalizzato in occidente, ma che ha avuto il più basso tasso di occupazione in Europa. I salari medi italiani sono molto più bassi rispetto alla media europea e lo sono purtroppo anche i tassi di produttività”.
Crescita dei salari in base alla crescita della produttività
Sacconi ha una sua proposta molto chiara: “Bisogna decentrare con forza e determinazione la contrattazione a livello aziendale o territoriale in modo che i salari possano crescere in base a produttività, professionalità e scomodità (lavoro notturno o festivo) specifiche. In questo modo le retribuzioni possono legittimamente crescere perché sospinte dall’efficienza dell’economia”.
“L’intervento sul cuneo fiscale – ha dichiarato Sacconi – è stato contraddetto dalla riduzione dell’IRPEF. E’ in quel frangente che si sarebbe dovuto aprire un tavolo con le parti sociali per discuterne… Sono contrarissimo alla legge sul salario minimo. I paesi che l’hanno fatto hanno stabilito una soglia molto bassa di garanzia. Con la legge si rischia di produrre lavoro sommerso e di svilire le contrattazioni. Se si dovesse proprio fare qualcosa, si dovrebbe estendere erga omnes il trattamento economico complessivo del livello minimo del contratto più applicato nel settore di riferimento. In questo modo non si entrerebbe in un territorio autonomo delle parti sociali”. Il tema della riduzione della capacità di acquisto delle fasce medio basse delle nostre comunità va risolto subito, proprio in vista dell’uragano che sta per scoppiare, non ci sono dubbi!
Con quale strumento uscirne?
Dall’analisi che abbiamo appena svolto saremo portati a dire, da una combinazione di tre fattori. L’introduzione di un salario minimo per legge; la riduzione del cuneo fiscale sul modello in vigore nelle otto regioni del nostro centro-sud. E inoltre un decentramento immediato e condiviso della contrattazione tra le parti sociali non più a livello nazionale, ma a livello territoriale e aziendale. In modo tale da combinare gli aumenti dei salari con la specifica produttività di quell’azienda o di quel territorio. Questa dovrebbe essere l’agenda del tavolo di concertazione che il Presidente Draghi sta per aprire.
Riccardo Rossotto