Il fatto che il virus non sia debellato dal lockdown, che si tema una seconda ondata, che ci si debba preparare a convivere a lungo con un male ignoto, questi e altri elementi di incertezza che sono quotidianamente dibattuti impongono una riflessione sulla strategia da seguire nella lotta contro il Covid19. Sul punto, negli ultimi giorni vi sono stati molti commenti che tendono a volere sovrascrivere la riflessione degli esperti a quella del decisore pubblico, che dovrebbe in qualche modo semplicemente conformarsi al parere dei primi e trasporlo in provvedimenti di legge. D’altra parte vi è invece chi, come il presidente del Bundestag Wolfgang Schäuble, ha invitato a “non lasciare le decisioni interamente nelle mani dei virologi” e a “tenere conto di tutte le implicazioni economiche, sociali e psicologiche”. È un dibattito che in effetti percorre oggi tutta l’Europa occidentale.

Il rapporto tra competenza e rappresentanza politica è una questione antica di ogni sistema politico, ma lo è particolarmente in seno a ciò che si è storicamente sviluppata come democrazia pluralista, cioè nell’evoluzione dello Stato di diritto liberale in forme di governo che hanno saputo esaltare il ruolo originario delle libertà individuali nel loro compimento anche nelle forme di articolazione collettiva della personalità dell’individuo, quindi nel riconoscimento dei diritti sociali. La tensione tra competenza e rappresentanza, infatti, trova in ogni estensione del catalogo dei diritti e delle libertà un nuovo elemento di imprescindibile valutazione da parte del decisore pubblico nel momento in cui è chiamato alla scelta.

Ciò porta ad alcune conseguenze. La prima è che, in una forma di governo in cui la rappresentanza politica di opinioni e interessi costruisce il consenso fiduciario di ogni azione di governo, il ruolo della competenza tecnica deve essere certamente considerato, avendo in ogni caso ben presente che su di esso potrà basarsi la maggiore o minore autorevolezza della decisione pubblica, tuttavia non la legittimazione dell’esercizio del potere che la presuppone.

La seconda è che la decisione politica risponde a un novero elevato di richieste, da parte della collettività, che sorgono da ambiti non coincidenti, afferenti a beni giuridici diversi, e talvolta contrapposti, al contempo tutti meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento.

Inoltre, sebbene l’epoca attuale veda riproporsi un’aspettativa fideistica nella possibilità di addivenire a una scelta giusta in quanto vera, in opposizione alle altre possibili scelte, erroneamente qualificate come false – è l’idea riemersa negli anni scorsi di una scelta tecnicamente giusta e impolitica – sappiamo che non è così, e ogni decisione è in sé il prodotto di un’opinione. Al di fuori dell’assioma matematico, e della legge scientifica consolidatasi in un consenso stabile nella comunità scientifica – e peraltro su quest’ultima i limiti della conoscenza, così come si produce nell’evoluzione della storia umana, suggeriscono di guardarsi bene da simili miti, ingiustificati e pericolosi – in tutti gli altri casi le opinioni hanno fondatezza maggiore o minore unicamente in ragione del grado di accordo che sapranno ottenere. La decisione pubblica non è mai la vera e unica soluzione tecnica, bensì semplicemente è quella politicamente preferita dalla maggior parte dei rappresentanti del corpo elettorale, peraltro nell’ambito ristretto di quelle ammissibili in base al quadro costituzionale.

Venendo all’attuale crisi, sono evidenti tali elementi di tensione. Peraltro, quanto alla possibilità di ricalcare la decisione pubblica sulla così detta posizione degli esperti, intendendosi in generale nel dibattito pubblico quella dei virologi, non pare rintracciabile, allo stato, una posizione univoca. Ci troviamo in una situazione in cui non vi è una stata indicazione di una strada soltanto, in cui nel corso delle settimane e dei mesi sono state fornite valutazioni diverse, anche da parte dei medesimi studiosi. Ancora persiste questa varietà di posizioni, e non certo per incapacità degli esperti, bensì perché siamo di fronte a una malattia nuova e ancora poco conosciuta in molti aspetti.

In secondo luogo, la decisione su come affrontare l’epidemia nei prossimi mesi, a cui è chiamato chi ha responsabilità di governo, non può esaurirsi nella risposta a un solo aspetto, proprio perché le richieste che provengono dalla società sono varie, e si riferiscono ad ambiti differenti, e a beni giuridici diversi ma in ogni caso tutti riconosciuti dall’ordinamento. Ha legittimità, in ambito medico, la richiesta di non esaurire l’intervento del sistema sanitario all’epidemia in atto poiché nel frattempo le persone affette da altre patologie hanno necessità di cura, spesso di trattamenti urgenti, il cui rinvio nel tempo può avere esiti irreparabili. Ha legittimità la richiesta di istruzione degli studenti e delle famiglie, poiché la didattica a distanza esalta la diseguaglianza sociale, in ragione delle condizioni delle famiglie, differenti per livello di istruzione, per possibilità economiche, per disponibilità di mezzi tecnologici. Hanno legittimità le richieste di non operare scelte che comprimano irragionevolmente la libertà individuale, a effettuare scelte razionali e ammissibili di limitazione di essa. Ha legittimità la richiesta di regole che prevedano la minima invasività possibile sulla persona in ragione dell’utilizzo di dati sensibili, così come le obiezioni sui rischi derivanti dal conferimento di tali dati a operatori privati. Ha legittimità la denuncia delle conseguenze del lockdown sull’economia, e dei rischi conseguenti sul piano sociale. Hanno legittimità le richieste di espressione di libertà, nell’esercizio individuale e collettivo, dalla manifestazione del pensiero al culto religioso. Ha legittimità la richiesta di non procedere a regolamentazioni discriminatorie, in ragione per esempio dell’età degli individui.

Per ciascuna di tali legittime richieste esistono posizioni diverse, né giuste né sbagliate, bensì semplicemente differenti. Inoltre, si potranno rintracciare opinioni non soltanto presso l’opinione pubblica generale, bensì pure nell’approfondimento di studio degli esperti. Ebbene, non si vede perché mai il decisore politico dovrebbe sovrascrivere la propria opinione a quella individuata da un consensus – come si è detto, sempre che si trovi – di virologi, e non anche, restando all’ambito della risposta sanitaria, a quello degli anestesisti rianimatori, o dei medici di medicina generale. Similmente, non si vede perché non tenere in conto i pareri di esperti riguardo all’istruzione, alla tenuta psichica della popolazione generale, alle regole dei procedimenti giudiziari, alle conseguenze economiche della crisi, alle necessità dei vari comparti produttivi, alla sostenibilità sul medio e lungo periodo delle misure assistenziali in via di adozione, insomma a ogni altro aspetto che rivesta importanza in ragione della dimensione delle conseguenze umana, sociali ed economiche della crisi che ci ha colpiti.

Laddove vengano a trovarsi contrapposti differenti beni giuridici tutelati dall’ordinamento, peraltro nel caso di specie tutti riferibili a diritti e libertà di rango costituzionale, il decisore pubblico è chiamato a un’opera di bilanciamento, che non può in ogni caso risolversi in una compressione assoluta di alcuno di essi. La scelta necessariamente deve essere politica, e tenere nella giusta considerazione ciascuno degli elementi.

L’idea di ricorrere al parere dell’esperto, come se il governo fosse cosa da rubrica del giornale della domenica, è in realtà non soltanto illusoria, bensì anche pericolosa, poiché può distorcere la modalità di assunzione delle decisioni in una democrazia pluralista e in un sistema improntato al rispetto delle regole e dei limiti costituzionali all’esercizio del potere. Si risolve in una delega al sapere tecnico, che viene falsamente rappresentato come neutrale rispetto alle opinioni in campo. Si tratta di una posizione che deriva dalla semplificazione del discorso pubblico negli ultimi trent’anni, e dalla sua involuzione culturale. Ha antecedenti storici ben individuabili nella storia italiana: osservava infatti Guglielmo Giannini che “per governare basta un buon ragioniere che entri in carica il primo gennaio e se ne vada il 31 dicembre. E non sia rieleggibile per nessuna ragione”.

Nicolò Ferraris

Nicolò Ferraris

Nato a Torino nel 1981 è avvocato penalista.

Discussione

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *