Per una volta personalizzo il contenuto della testata. Mi sono sempre infatti occupato, durante la mia carriera professionale, di copyright e di tutte le attività più o meno proteggibili da tale norma. Ho anche gestito un corso all’università di Torino proprio per socializzare agli studenti la genesi e gli sviluppi giuridici e culturali di una norma che ha segnato un momento fondamentale nella trasformazione dei modelli industriali dell’Occidente.
Perché? Perché la previsione di una tutela legale per un’opera dell’ingegno avente le caratteristiche della novità e della originalità, ha sicuramente spinto e stimolato molti giovani artisti e inventori a investire tempo e risorse nella ricerca e sviluppo di beni e/o servizi innovativi, utili ad aiutare il progresso della civiltà, riconoscendo un valore economico all’inventore.
Senza tale stimolo, anche di natura patrimoniale, probabilmente non ci sarebbe stata un’accelerazione di invenzioni come quella accaduta dopo la diffusione in tutto l’Occidente della normativa sul copyright. Sono sempre partito da questo assunto per spiegare agli studenti l’importanza della norma e la necessaria valutazione, caso per caso, sull’esistenza dei requisiti di applicazione della tutela alle singole innovazioni prodotte dall’ingegno umano.
Oggi un libro pubblicato dal professore americano di Princeton David Bellos e dall’avvocato Alexandre Montagu e intitolato “Il capitalismo della creatività” (Marsilio), ribalta l’assunto: spiega come il copyright abbia ormai un valore economico e un costo sociale troppo alto. In sintesi, tale norma sarebbe diventata un moltiplicatore di disuguaglianze, con pochissime aziende che hanno comprato i diritti dagli inventori che incassano milioni di dollari mentre nel mondo poche migliaia di persone si guadagnano da vivere con i libri.
Un saggio che, dunque, dice basta all’impoverimento dei beni comuni e al non arricchimento della cultura generale. Una tesi forte, provocatoria, fondata su un ragionamento interessante e motivato, sicuramente più o meno condivisibile come vedremo. In una società sempre più aperta in cui i dati sono il vero asset intangibile che dà valore a un’azienda, è antistorico avere una norma che, nella sostanza, protegge soltanto alcuni monopolisti bloccando la diffusione della conoscenza al grande pubblico e costituendo quindi, come detto, un moltiplicatore di disuguaglianze culturali profonde e prospetticamente molto gravi.
La teoria degli autori parte dalla genesi del diritto d’autore, quando nel XV secolo le autorità di Venezia concessero, per la prima volta, agli artigiani una protezione assoluta per sette anni sul design delle merci di lusso che avevano prodotto. I Dogi veneziani volevano che i loro imprenditori sviluppassero sempre di più il design delle loro merci e, per tale ragione, vollero stimolarli in tale attività, proteggendo legalmente le loro invenzioni.
Bellos e Montagu citano poi lo Statuto della regina scozzese Anna Stuart, la prima regina della Gran Bretagna che aveva riunito sotto di sé l’Inghilterra, la Scozia e il Galles. Nel 1710 la regina Anna di Gran Bretagna promulgò quello che è considerato l’inizio della storia del diritto d’autore moderno. Agli inizi della rivoluzione industriale, anticipandone quindi lo sviluppo successivo, la regina capì l’importanza di una tutela legale per spingere le nuove generazioni a spendere tempo e risorse nell’innovazione e ricerca. Ma tale protezione, secondo il saggio di Bellos e Montagu si è via via “metastatizzata” distorcendo il razionale originario della norma e diventando una barriera d’accesso per tutta l’umanità, con un costo economico e sociale inammissibile.
Ma da cosa ricavano queste conclusioni i due autori? “Il costo per gli individui si manifesta – secondo Bellos e Montagu –attraverso molteplici piccole tariffe applicate a materiali di ogni tipo, dai pelouche alle confezioni di cereali, nonché attraverso i prezzi di film, libri e canzoni che arricchiscono i detentori dei diritti d’autore per la maggior parte di aziende, non di autori singoli. Il costo per la nostra cultura é l’effettivo divieto di riutilizzo del materiale protetto”.
Siamo arrivati, si legge nel libro, a una situazione paradossale in cui nei film si evitano le rappresentazioni dell’armamentario della nostra vita quotidiana per non violare i diritti dei loro “proprietari”. Per questo motivo tante interviste sono diffuse con uno sfondo nero che non crea rischi di violazione del copyright! La regola è – scrive Bellos – “se non è tuo… taglialo!”.
Il copyright è diventato un impoverimento dei beni comuni, non un arricchimento della cultura. Quando è incominciata la degenerazione, con tutti i soprusi ai danni di noi consumatori? Secondo gli autori quando la tutela è stata estesa, pezzo dopo pezzo, alle registrazioni, agli spartiti e alla fotografia. “La durata del diritto – si legge nel libro – è passata dagli iniziali 14 anni ai 28, poi dai 42 ai 56 fino agli attuali 70 anni che talvolta diventano anche 95 o di più. Il copyright ha risucchiato e divorato i diritti derivati, dai diritti di riassunto alle antologie, agli adattamenti, alle traduzioni e infine a ogni possibile uso secondario, compresa la citazione e l’esposizione di opere d’arte visive”.
La svolta però avvenne nel 1976 quando gli Stati Uniti approvarono una legge che sostanzialmente proibiva l’uso di tutte le opere protette da copyright, eccezion fatta per una vaga e minuscola quota di “fair use”, denominato anche uso consentito. Una legge che includeva per la prima volta anche il software e il design dei chip, oltre all’estensione della durata del copyright a 70 anni post-mortem e a controlli rigorosi sui DVD e sulla condivisione della musica. L’osservanza di tutte queste regole diventava il requisito essenziale perché un paese potesse aderire all’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO).
Con una provocazione lessicale suggestiva, gli autori sostengono che oggi il termine autore significhi in realtà “datore di lavoro”. “Le grandi aziende hanno acquistato infatti la maggior parte dei diritti commerciali degli artisti. Le leggi sul diritto d’autore creano le regole del business di imprese come Bertelsmann, Verlag, Paramount studios, Sony music, che ha comprato per oltre 500 milioni di dollari l’intero catalogo di Bruce Springsteen”.
Gli autori immaginano che l’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare la tecnologia che faccia crollare l’intera struttura legale del copyright. La ragione è molto semplice. “L’intelligenza artificiale – si legge nel libro – sta inondando il mondo di materiale creato da nessuno mentre il diritto d’autore può essere attribuito solo a un essere umano o a un suo datore di lavoro. Mentre, se continua così, presto nessuno sarà in grado di dire se ciò che vuole usare è protetto da copyright o no”. Possiamo capire tutti l’importanza delle decisioni che in questi mesi sono nelle mani dei giudici americani che stanno valutando proprio il caso New York Times-OpenAI.
La speranza degli autori è “che i dispositivi di intelligenza artificiale, nutrendosi della loro stessa produzione, producono una tale montagna di spazzatura che torneremo a leggere libri veri”. Secondo il loro ragionamento, stiamo già vivendo in un mondo post-copyright. La maggior parte degli autori riceve infatti la propria ricompensa sotto forma di vari privilegi (concessione di borse di studio, corsi di università e così via…) o attraverso altri incarichi e altre occupazioni.
“Creative Commons – scrivono – ha permesso a imprese come Wikipedia di prosperare al di fuori della legislazione sul copyright. Gli informatici hanno sviluppato software open source. E, per la sua enorme popolarità, hanno consentito a YouTube di pubblicare materiale protetto da copyright senza pagare nulla”.
“In definitiva – secondo gli autori del libro – le alternative ci sono e sono già operative. Tuttavia è improbabile che l’industria creativa ad alta intensità di capitale come quella del cinema, della televisione, dei software proprietari e della musica pop, segua l’esempio in assenza di una forte spinta”.
In un’intervista a David Bellos, Riccardo Staglianò, parafrasando una famosa dichiarazione di Churchill a proposito della democrazia, ha sottolineato come la legge sul diritto d’autore abbia sempre costituito un esempio di norma controversa e discussa ma, però, comunque migliore di tutte le altre opzioni possibili in materia o, peggio, comunque migliore rispetto allo scenario di non averne nessuna.
Personalmente, credo che la soluzione non sia quella di cancellare un principio giuridico che è stato alla base dello sviluppo scientifico dell’umanità intera ma di coniugarlo in maniera corretta ed equa con la rivoluzione digitale in atto, individuando sempre un equilibrio tra l’esistenza di uno stimolo economico che spinga sempre l’essere umano alla ricerca e allo sviluppo scientifico e, dall’altra parte, la limitazione e gestione di eventuali e possibili monopoli distorsivi.
Riccardo Rossotto