Sei mesi di custodia cautelare in carcere. Uno sciopero della fame a oltranza. Un sondino alimentare infilato nel naso e fatto scendere fino allo stomaco, il tutto contro l’esplicita volontà della donna e attraverso il ricorso alla coercizione fisica e alla tortura. Poi il processo in tribunale, lunedì 28 dicembre, e la condanna a quattro anni di reclusione per aver “provocato disordini” e “diffuso false informazioni attraverso i social network”. Questa la storia della giornalista cittadina e blogger cinese Zhang Zhan. Anni 37, laureata in Giurisprudenza ed ex avvocato.
Zhang Zhan, al pari di molti altri giornalisti indipendenti, aveva iniziato, tra gennaio e febbraio di quest’anno, a seguire, indagare e documentare la gestione della pandemia di Covid19 da parte della Repubblica Popolare Cinese, senza risparmiare pesanti critiche ai metodi impiegati dal regime. Viaggiò a Wuhan, la città centro dell’epidemia, raccolse interviste, scattò fotografie, rilasciò dichiarazioni ad agenzie di stampa straniere e utilizzò le piattaforme social (anche quelle occidentali, censurate in Cina) per condividere informazioni che riteneva dovessero essere pubbliche e conoscibili da tutti. Il risultato di tale servizio di informazione fu che a maggio di quest’anno, per la terza volta in tre anni, venne arrestata.
L’avvocato di Zhang Zhan sostiene di averla vista malata ed esausta, riferisce che per lei ogni giorno è una tortura e che più volte sia stata legata al letto per evitare che si strappasse i tubi di dosso. Soffre di forti emicranie, dolori di stomaco, frequenti infiammazioni di bocca e gola e ha bisogno di assistenza anche per andare in bagno. La famiglia, che più volte l’ha implorata di interrompere lo sciopero della fame, adesso teme che, tra quattro anni, la giornalista possa non uscire viva dalle sbarre della sua cella. Ciò che è certo è che le sue attuali condizioni psicofisiche non sono in alcun modo compatibili con la detenzione.
Zhang Zhan è soltanto una dei tanti giornalisti, avvocati e attivisti per i diritti umani, in carcere, sotto processo o fatti sparire nel nulla per ragioni legate alla libertà di espressione e di stampa. Prima di lei Li Zehua, Chen Qiushi (scomparso per otto mesi e ricomparso a settembre sotto strettissima sorveglianza delle autorità. Attualmente non può parlare con i giornalisti, non ha internet in casa e non è autorizzato a lasciare l’abitazione) e ancora Fang Bin, portato via dalla polizia senza che di lui vi siano più notizie dal 9 febbraio scorso.
Queste storie, le storie quotidiane di repressione nei confronti del giornalismo indipendente entro i confini della Repubblica Popolare, confermano il suo triste primato mondiale per numero di giornalisti in prigione: quest’anno, su 387 giornalisti detenuti nel mondo secondo Reporters Sans Frontières, ben 117 sarebbero cinesi. La stessa organizzazione pone la Cina al 177° posto della classifica globale sulla libertà di stampa. I Paesi monitorati sono 180.
Il 28 di dicembre sarebbe stato il sessantacinquesimo compleanno del premio Nobel per la Pace Liu Xiaobo, lasciato morire in carcere per aver chiesto un sistema di riforme nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali in Cina. In quello stesso giorno, una giornalista viene a sua volta rinchiusa in carcere. Da innocente.