Mancano otto giorni allo scrutinio finale. Inizia l’ultima settimana: quella decisiva. Gli incerti sono ancora tanti, secondo gli ultimi sondaggi (intorno al 25-30%): potrebbero decidere di non votare o di scrivere, all’ultimo momento, sulla scheda, la loro preferenza (poi vedremo che in realtà la legge elettorale americana non funziona proprio così). Sarà importante anche capire e/o interpretare i fatti che accadranno nei prossimi sette giorni sia sul piano internazionale, sia, soprattutto, sul piano economico interno: sui dati macroeconomici del come sta funzionando il sistema americano insomma.

La storia delle elezioni presidenziali americane ci insegna alcuni punti fondamentali: il primo riguarda proprio l’economia. Se tutto gira a dovere, il Pil aumenta, la disoccupazione diminuisce, l’inflazione è sotto controllo, è difficile che il presidente in carica perda le elezioni: al contrario è invece certa la sua sconfitta. Gli americani, come recita una sintetica ma eloquente battuta che gira per il paese, votano con il portafoglio! Danno la loro preferenza a chi gli garantisce la speranza di una qualità di vita migliore.

Noi europei, quando ci approcciamo al confronto elettorale americano, non dobbiamo cadere in un errore molto comune, e proprio qui sta uno dei punti fondamentali per leggere in modo corretto cosa stia succedendo negli Stati Uniti: manifestare il nostro giudizio in base ai nostri criteri culturali, politici, sociali. Gli americani sono diversi da noi, molto meno ideologici, molto più pragmatici. Un episodio, a mio parere, dimostra questo assunto. In questa campagna, spesso, nelle nostre capitali europee si è tifato per le dimissioni di Biden e la candidatura di Michelle Obama, portatrice di quei valori che il marito aveva presidiato e coltivato nei suoi due mandati presidenziali.

Ebbene, in America (e infatti Michelle si è ben guardata dal cadere nella trappola di una candidatura!) la stragrande maggioranza dei cittadini non ha un bel ricordo di Barack Obama e non ha mai fatto il tifo per una discesa in campo della moglie… in una continuità famigliare e politica. Anzi! Detto ciò, proviamo ad affrontare prima il tema delle regole del gioco della campagna elettorale negli Stati Uniti e poi quello dei sondaggi attuali sulle chances dei due candidati.

Chi sono i Grandi Elettori e come funziona il sistema elettorale

Come sappiamo, non vince sempre il candidato che ottiene più voti popolari a livello nazionale: si è già verificato che la maggioranza degli americani avesse votato per un candidato ma che poi il rivale avesse comunque prevalso nel voto decisivo. Già, ma qual è il momento del voto decisivo?

Come sappiamo gli Stati Uniti sono uno Stato federale che manda al Congresso e al Senato i rappresentanti dei vari Stati o in ragione del criterio della popolazione di ogni Stato (la Camera dei Deputati) o in ragione del criterio della pariteticità (il Senato dove ogni Stato ha due rappresentanti salvo Washington D.C. che ne ha uno solo).

Il sistema elettorale è simile a quello inglese: chi vince anche per un solo voto si prende “tutto il bottino”, “winner takes all”, salvo in due Stati, il Maine e il Nebraska dove vige ancora il proporzionale. La peculiarità, invece, del sistema dell’elezione presidenziale è quella costituita dalla presenza dei cosiddetti Grandi Elettori. Il collegio elettorale statunitense è formato appunto da un gruppo di Grandi Elettori (dall’inglese “Electors”) che rappresentano ciascuno dei 50 Stati americani e sono loro a votare direttamente il Presidente.

Ad ogni Stato viene assegnato un numero di Grandi Elettori in base alla popolazione. La California ad esempio ne ha 55, il Texas 40, il Wyoming ne ha soltanto 3. I Grandi Elettori sono 538: un numero non casuale ma dettato dalla somma dei deputati americani 435 e dei senatori 100 con 3 Grandi Elettori assegnati a Washington D.C., la capitale, che non fa parte di nessuno Stato.

È prassi che i Grandi Elettori votino il candidato che ha conquistato il maggior numero di voti nel proprio Stato. Ricordiamoci che il mandato non è vincolante, quindi in astratto il Grande Elettore vota “come vuole”. Normalmente, però, i Grandi Elettori sono scelti dai partiti tra i propri responsabili o comunque sostenitori “certi”. E infatti non è mai accaduto il “tradimento”. Torniamo al sistema di votazione. Chiunque vinca, ad esempio, nel voto popolare in Texas, otterrà i voti di tutti e 40 Grandi Elettori di quello Stato.

Per vincere un candidato presidenziale ha bisogno dell’appoggio di almeno 270 Grandi Elettori e cioè la maggioranza dei 538. Proprio negli ultimi anni si sono verificati due casi, il primo tra l’altro conclusosi con un contenzioso arrivato fino alla Corte Suprema, in cui la prassi è stata rivoluzionata: nel 2000 Al Gore ottenne 500 mila voti popolari in più di George W. Bush ma meno voti dei Grandi Elettori. Perse cioè in alcuni Stati “chiave” in cui il numero dei Grandi Elettori era superiore a quello di Stati dove aveva prevalso, ma avevano meno Grandi Elettori.

Stessa situazione nel 2016 quando Donald Trump divenne Presidente degli Stati Uniti battendo Hillary Clinton che aveva ottenuto la maggioranza dei voti popolari (quasi 3 milioni di voti in più!); anche in quel caso però in Stati in cui la sommatoria dei Grandi Elettori era inferiore a quella di Trump, vincente in meno Stati ma dotati di un maggior numero di Grandi Elettori.

Questo sistema elettorale, praticamente inalterato nelle regole del gioco fin dagli albori della nascita degli Stati Uniti (la legge elettorale è del 1845), è fondato su un modello di bipartitismo. I Padri fondatori erano preoccupati dopo aver combattuto contro la monarchia britannica, che l’esecutivo potesse finire per avere troppo potere: dunque puntarono su un sistema di poteri autonomi e indipendenti tra Esecutivo, Legislativo e Giudiziario.

Durante la Convenzione di Philadelphia nella quale ci fu il primo dibattito sulla futura Costituzione americana, volevano che fosse il Congresso a scegliere il Presidente, altri volevano che invece il Presidente fosse nominato direttamente dai cittadini. Alla fine, fu trovato un compromesso in base al quale sarebbe toccato agli Stati eleggere il Presidente e non al Congresso.

È indubbio che il sistema offre ai piccoli Stati molto più potere nella scelta del Presidente rispetto ai grandi Stati: anche su questo punto però i Padri fondatori furono rigorosi. Bisognava trovare un giusto equilibrio fra il principio di rappresentanza (il numero dei cittadini di uno Stato) e comunque una partecipazione di tutti gli Stati alle scelte politiche fondamentali della nuova nazione (la pariteticità del numero di senatori per ogni Stato a prescindere dal numero dei cittadini).

In America ci sono sempre stati due principali partiti politici, il partito Democratico, più orientato a sinistra, e il partito Repubblicano, tradizionalmente più conservatore. Non dimentichiamoci che la destra del partito Democratico a volte assume posizioni molto più conservatrici della sinistra del partito Repubblicano e viceversa. Soltanto in poche occasioni elettorali si è presentato un terzo candidato, indipendente rispetto ai due partiti citati, che però non è mai riuscito a prevalere, sottraendo voti, di volta in volta, all’uno o all’altro esponente democratico o repubblicano.

L’elettorato, come dimostrano le statistiche più autorevoli, era abbastanza costante nella sua preferenza di voto, salvo in alcuni Stati, i cosiddetti Swing States (gli Stati in bilico) dove entrambi i partiti hanno la possibilità di vincere con la conseguenza che la vittoria in uno degli Swing States segnala il probabile trend a favore di un candidato o dell’altro. Nelle ultime elezioni del 2020 gli Stati in bilico furono la Pennsylvania, il Michigan, il Wisconsin, la Florida, l’Iowa, l’Ohio. Oggi, quattro anni dopo, potrebbero diventare Swing States anche l’Arizona, la Carolina del Nord e la Georgia.

Come possiamo leggere in questi giorni su tutta la stampa internazionale, lo Stato simbolo dell’incertezza su chi sarà il nuovo Presidente americano è proprio la Pennsylvania, uno Stato con un buon pacchetto di Grandi Elettori (19) che presenta un elettorato più mobile rispetto ad altri. Un elettorato che potrebbe, per pochi voti, premiare il candidato repubblicano o il candidato democratico permettendogli di fare il “bottino pieno” dei Grandi Elettori.

Ricordiamoci sempre che basta un voto popolare in più per portarsi a casa tutti i Grandi Elettori di quello Stato. Un’unica volta i Grandi Elettori non riuscirono a raggiungere la maggioranza di legge: fu nel 1824 quando si presentarono ben 4 candidati e nessuno raggiunse il quorum dei 270 Grandi Elettori. In quel caso la Costituzione affida al Congresso la nomina del Presidente.

Potremmo discutere per ore sulla correttezza e virtuosità di questo sistema elettorale: però è così e dobbiamo prenderne atto. Non a caso in questi giorni di vigilia in cui si svolgono gli ultimi comizi dei candidati, anche molti degli inviati speciali dei giornali italiani si aggirano tra la Pennsylvania, soprattutto, e gli altri Stati in bilico dove sono “sul piatto” il maggior numero di Grandi Elettori, per capire il sentiment dei cittadini.

Gli ultimi sondaggi e il pronostico

Sembrerebbe che la luna di miele con Kamala Harris sia terminata: gli ultimi sondaggi la mostrano ferma se non in discesa nella sua percentuale di consensi. Per alcuni è ancora in vantaggio, ma di poco. Trump invece, nonostante alcune sue apparizioni … per noi deludenti … ma non dimentichiamoci cosa scrivevo all’inizio riguardo alla diversa cultura degli elettori americani rispetto a noi europei… Trump, dicevo, conserva la sua percentuale di consensi che se si votasse oggi, al netto degli incerti, gli potrebbe dare la presidenza.

In base alle ultime, appassionate, conversazioni telefoniche con alcuni amici e colleghi americani (lo preciso però, di New York o di San Francisco: quindi di zone “speciali e diverse” rispetto alla cultura politica media degli Stati Uniti) la paura che Trump alla fine ce la faccia è molto alta.

Kamala Harris ha fatto un miracolo riducendo le distanze tra i due candidati (con Biden sarebbe stato un disastro annunciato!) ma sta pagando l’eredità di un mandato presidenziale caratterizzato da un errore strategico non scusabile: l’abbandono di Kabul con la dimostrazione di un disinteresse dell’America per quella zona calda del mondo… con tutte le drammatiche conseguenze che stiamo vedendo, accadute non a caso subito dopo quel disastroso e ingiustificato abbandono dell’Afghanistan nell’agosto 2021. Bisogna però vedere quanto inciderà sulla scelta finale degli elettori lo stato dell’arte dell’economia americana.

Probabilmente come è già accaduto in passato, il portafoglio sarà il driver delle scelte degli elettori e probabilmente la maggioranza degli americani si ritrova con un portafoglio che ha una capacità di acquisto sul mercato inferiore al passato e questo potrebbe davvero essere la chiave di una vittoria non tanto e non solo del “non amato Trump” ma della speranza di un cambiamento rispetto agli ultimi anni.

Bisognerà tener conto anche di altri due fattori: (i) sono stati pubblicati i documenti relativi al procedimento penale a carico di Trump sui fatti avvenuti il 6 gennaio, al momento della sua nomina. Potrebbe essere una bomba giudiziaria con evidenti conseguenze sul risultato elettorale in quanto è emersa la prova documentale che Trump era al corrente tre ore prima “dell’attacco” della sua dinamica e dei suoi obiettivi. (ii) In secondo luogo, esistono due interrogativi a cui nessuno sa dare una risposta precisa: come voterà l’elettorato femminile?

A favore o contro la candidata Kamala Harris? E nel contempo, quanto conterà quel pregiudizio ancora esistente, non solo nella società americana, di temere l’immagine di una donna seduta nella Sala Ovale della Casa Bianca, comandante supremo delle forze armate americane; con quindi il potere di schiacciare il bottone rosso della bomba atomica?

Quello che lascia sbigottiti e preoccupati è che il cosiddetto paese “faro delle democrazie” non riesce ad esprimere una leadership che raccolga il consenso della stragrande maggioranza dei suoi cittadini. In queste elezioni si è rischiato che la partita se la giocassero due ultraottantenni: anche su questo punto e cioè sulla formazione di una nuova classe dirigente politica, noi occidentali dovremmo aprire un cantiere di riflessione lungo e approfondito. Sono stato educato al “sogno americano”, a immaginare l’America come il benchmark delle democrazie evolute e civili.

Purtroppo siamo passati dal “right or wrong it is my country” al “first … America!”. Due libri, che vi consiglio, ci spiegano il “Come” e il “Perché” di questa deriva. L’ultimo saggio dell’ormai ottantunenne Bob Woodward, il leggendario giornalista dello scandalo Watergate, dal titolo “War” (Edizione Solferino); il volume di Alan Friedman, grande conoscitore dell’America, intitolato “La fine dell’impero americano” (La Nave di Teseo).

Riccardo Rossotto

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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