A differenza della scorsa “puntata” di questa sezione, in cui sono state pubblicate due visioni profondamente discordanti dell’Islam, questa volta il confronto è meno diretto. Un articolo tratta del caso di Imane Khelif, la pugilatrice algerina al centro di roventi polemiche durante le Olimpiadi di Parigi. L’altro, un brano inedito di Domenico Ioppolo, accenna alla vicenda e si concentra di più su aspetti vicini alla comunicazione, riprendendo l’affaire Ferragni. In entrambi i casi, comunque, si parte da presunti scandali e si arriva a toccare questioni legate ai “diritti”.

Milo Goj

 

Non ci sarebbe stato bisogno di ritornare sull’affaire Ferragni. Gli elementi sono fin troppo evidenti: su circa 12.000 sentenze assunte della Autorità Garante in tema di pubblicità ingannevole, in più di 30 anni di attività, solo il caso Ferragni ha raggiunto le pagine dei giornali, dimostrando che la faccenda non atteneva a questioni di marketing e  comunicazione o, come si è cercato di nobilitare,  di difesa del consumatore truffato. Un caso che ha evidenziato, da parte dei media, una incomprensione dei fenomeni sociali sottesi o, con un pensiero malevolo, della perfetta comprensione che un nuovo e più potente competitor era sceso in campo nel mercato delle influenze.

Non  ci sarebbe stato quindi nessun bisogno, senonché in questi giorni è rimbalzata una notizia che arriva dalla Convention Democratica, dove insieme ai giornalisti sono stati invitati più 200 #Creators Digitali a cui sono stati attribuiti una lounge e spazi di lavoro, con la possibilità di fare interviste e girare i propri contenuti durante la convention di Chicago, certificando, ciò che per alcuni era  scontato, che l’informazione sviluppata dai #Creators Digitali è considerata tanto importante quanto quella tradizionale.

Ed è proprio questo il punto. Chi si occupa di questi argomenti sa che il mondo digitale rappresenta un universo parallelo per milioni di persone, soprattutto della Generazione Zoomer, che trovano la possibilità di informarsi e di lavorare, producendo un reddito che soddisfa totalmente o parzialmente i propri bisogni. Giovani che vivono il rapporto con il lavoro in maniera creativa e per nulla legata alle rigide forme del passato, avendo al centro la qualità della loro vita.

La produzione di bene e servizi ha sempre richiesto macchinari e strumenti con forti investimenti di capex con tempi e metodi definiti e modelli organizzativi di tipo gerarchico. Non si è mai sufficientemente riflettuto sul fatto che tutta la lingua aziendale (strategia, target, dominio, armi, struttura…)  sia di derivazione militare. Era pertanto necessario recarsi in un luogo preciso, in orari precisi, per avere accesso agli strumenti di produzione. Oggi la tecnologia disponibile non lo richiede più e, nonostante anacronistiche resistenze e mancanza di moderna cultura di impresa, si stanno sviluppando modelli molto più flessibili e coinvolgenti. Ma di questo mondo, di cui Chiara è solo la punta più riconoscibile in Italia, il mondo normale, gli ordinary people, non sembrano averne e volerne avere coscienza.

E questo è un problema molto serio, non solo perché la tecnologia sta modificando pesantemente il modo di informarsi, di produrre informazione, i processi produttivi e il mondo del lavoro ma perché impatta sulla stessa organizzazione sociale e qualcuno ipotizza sulla stessa antropologia culturale. L’introduzione della AI e dell’utilizzo dei dati, al di la delle previsioni tranquillizzanti che i vari think thank internazionali emettono (per inciso sono gli stessi che negli anni 70 hanno risposto ad una domanda della allora SIP, circa lo sviluppo della telefonia cellulare, prevedendo che si sarebbero raggiunti un massimo di 800.000 persone coinvolte ), sarà una vera e propria rivoluzione occupazionale con una massiccia riduzione del fabbisogno di ore lavorate, soprattutto in certe funzione clerIcal dei colletti bianchi.

La creazione dell’opinione tiene ormai stabilmente conto dei social e i media tradizionali presidiano principalmente il circuito politica-potere, non riuscendo a parlare all’opinione pubblica. La scuola sta attraversando un grande periodo di crisi e i ragazzi non la vedono più come uno strumento di crescita personale e di accrescimento conoscitivo, contestando col disinteresse uno schema pedagogico che si basa su una struttura elaborata nel Medioevo. Per non parlare delle questioni di genere, di cui il caso della pugile algerina è stato solo l’ultimo e più evidente atto, con una nitida frattura tra chi pensa che la politica abbia il diritto di intervenire e normare e chi, soprattutto i giovani, che si tratti di sfere di esclusiva decisione personale.

Un mondo che cambia, e che solo nei prossimi dieci anni sarà molto diverso, rispetto al quale siamo totalmente impreparati, sia legislativamente sia culturalmente, chiusi nelle fortezze di certezze del nostro potere rappresentato dalla triade moneta-media-politica. Due mondi si stanno separando, uno è quello degli Zoomer, che coscienti di questo cambiamento lo utilizzano per lavorare e vivere e in certo senso lo guidano, l’altro è l’establishment adulto fatto di lavori con contatti fissi, buoni studi, informazione media, che derubrica il cambiamento a poco più di giocattoli tecnologici (social, video giochi, IA, ambianti virtuali …), senza una completa coscienza di cosa stia accadendo.

I giovani sono stati sempre portatori di innovazione: la rivoluzione illuminista è anche figlia di una presenza maggioritaria nella società del ‘700 di giovani, a seguito della fine delle guerre di religione e delle pestilenze, che hanno messo in discussione la cultura, i valori e l’organizzazione sociale, arrivando a modificare il concetto stesso di tempo ; i moti libertari della fine degli anni Sessanta, che hanno cambiato mode e costumi, sono stati figli di una curva demografica che ha portato in quegli anni a maturazione i figli del dopoguerra.

Quei giovani erano demograficamente maggioritari e hanno combattuto una guerra ideologica contro l’Ancient Regime. Erano visibili, agguerriti e hanno cercato di modificare il mondo attraverso la battaglia culturale, platonicamente convinti che quella fosse la strada maestra del cambiamento: si pensi alla Enciclopedie, ai Magnifici Ribelli di Brema e recentemente a fenomeni come il Rock. Oggi le cose sono molto diverse, questi giovani sono demograficamente una minoranza e non si pongono minimamente il problema, come avrebbe detto Gramsci, dell’egemonia culturale, lo fanno e basta. Culturalmente avanti, hanno dalla loro la potenza della tecnologia e la bomba demografica, che fra qualche decade risolverà il problema del campo avverso senza sparare un colpo (la terminologia militare è tutta mia, che nonostante tutto appartengo al campo avverso).

Queste ragazze e ragazzi sono la evidenza sociologica della rivoluzione avvenuta in questi anni nel software, dove siamo passati da uno schema logico programmato, tipico della cultura idealistica che ha dominato il nostro ‘900, all’AI dove le cose avvengono senza chiedersi il perché ma come risultato di una maggiore probabilità statistica. Un passaggio da una cultura idealistica-meccanicistica ad una pragmatica-quantistica, che è la vera rivoluzione di questo inizio di secolo. Provate a parlare con i ragazzi a scuola e vi dicono che si annoiano e che non hanno molto da imparare. Provate a veder quanti di questi ragazzi, anche dotati di ottima cultura universitaria, si informa attraverso i media tradizionali, eppure sono informati. Ecco questa è la questione (termine anche questo che la dice lunga circa il pulpito da cui scrivo): un cambiamento rivoluzionario in corso senza che chi detenga il potere se ne stia rendendo conto.

Due universi paralleli uno detentore del potere politico-economico-informativo, a cui partecipiamo tutti noi e probabilmente i lettori di questo articolo, da una parte e uno che ha la potenza della tecnologia e dell’età dall’altra. Due universi che non si conoscono e non si parlano. Tutto questo è molto rischioso per lo sviluppo dell’apparato tecnologico digitale, che avrebbe bisogno di acquisire molte se non tutte le conquiste di civiltà e pensiero di 3000 anni storia, ma soprattutto rischioso per noi tutti che ci troveremo in un ambiente completamente nuovo di cui ci mancano tutti i parametri conoscitivi. La difficoltà con cui stiamo reagendo ai fenomeni di quite quitting, il fastidio con cui approcciamo il fenomeno dei creators e degli influencer, la superficialità con sui rispondiamo alla sfida del climate change e delle questioni di genere, sono solo alcuni degli esempi della distanza che ci separa da questo nuovo mondo.

Generazioni che non dialogano e non si conoscono. Le sole che stanno provando a capire sono le aziende, che confermano di essere il vero centro di elaborazione culturale di questo lustro. Magari lo fanno non per filantropia culturale ma perché non possono abbandonare un target sempre più importane e una frontiera di sviluppo che li modificherà, se è vero che già oggi un brand che non abbia una sua dimensione digitale e virtuale non può più esistere, ma sono i soli soggetti che stanno cercando di capire, elaborare e creare dei ponti. Difficile indicare una strada per superare questa incomunicabilità. I soggetti di mediazione culturale, soprattutto la scuola, arrancano e le forze in campo (ritorna la mia terminologia militare) o non sono interessate (i giovani digitali) o non pensano di doversi mettere in discussione (il potere). Capiremo, forse. Mi auguro non sia troppo tardi.

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo

Domenico Ioppolo è amministratore delegato di Campus (Gruppo Class) e direttore scientifico del Milano Marketing Festival. È stato Managing Director Emea di Nielsen Media, Ad di WMC, Initiave Media e...

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