Meglio: “Se avessi saputo che gli esami sarebbero stati così difficili, avrei studiato di più”, oppure “se sapevo che gli esami erano così difficili, studiavo di più”? E ancora, “Vorrei che tu venissi” o “vorrei che tu vieni”? Per non parlare del confronto tra “Spero che tu venga presto” e “Spero che tu vieni presto”.

Detta così può sembrare una questione di estetica del linguaggio, di bon ton nell’uso dell’italiano. E in effetti io assimilo chi al posto del congiuntivo (e a volte del condizionale, cui è spesso collegato) utilizza impropriamente l’indicativo, a chi a tavola mastica con la bocca aperta o lecca il coltello. Ma non è una questione formale, una differenza tra chi ama parlare correttamente e chi ritiene sufficiente farsi capire in qualche modo. L’utilizzo appropriato dei modi verbali aiuta a comprendere sottigliezze di ragionamento, emozioni, stati d’animo. Semplificando, una delle funzioni del congiuntivo (ma non certo l’unica) è far capire che chi parla non è sicuro di quello che dice, esprime ipotesi, dubbi, speranze. Al contrario dell’indicativo che è il modo della certezza. “So che sei milanese” significa che ho la sicurezza che sei di Milano. Se invece la mia è soltanto un’ipotesi, devo dire: “Penso che tu sia di Milano”.

Annullare questa differenza non significa andare verso una lingua più semplice, bensì banalizzare il tutto, creare una sorta di marmellata linguistica. Le esortazioni ad abbandonare il congiuntivo non sono figlie del linguaggio dei social. Hanno radici più antiche. Anche il grande Alberto Moravia, già una novantina di anni fa, teorizzava di non utilizzare più questo modo verbale. Peccato che, commentando il suo primo capolavoro, “Gli indifferenti”, scrisse: “Che poi SIA risultato un libro anti borghese è tutta un’altra faccenda”. Per tornare alla metafora precedente, anche il galateo del saper stare a tavola non è in realtà dettato da vuote regole formali. Come per l’adeguato utilizzo dei modi verbali, ogni indicazione risponde a esigenze concrete. Un esempio. Un bicchiere di Champagne (ma vale anche per altri vini) va tenuto per il gambo, il più lontano possibile dalla “pancia”. Questo non per un’armonia estetica. Ma perché altrimenti la mano riscalderebbe la temperatura del vino e, se troppo vicina al naso di chi beve, ne altererebbe il bouquet.

L’amico Domenico Ioppolo, ormai frequente e apprezzata firma de L’Incontro, afferma che l’italiano è l’unica lingua che usa il congiuntivo (“usa” e non “usi” in quanto per lui è una certezza; le precisazioni sono preziose) perché a differenza delle altre non è mai stata parlata. “Non è un caso che noi siamo in grado di leggere Dante mentre gli inglesi per leggere Shakespeare devono ricorrere al vocabolario, questo perché, essendo una lingua solo scritta, l’italiano è rimasto stabile nei secoli”, scrive Ioppolo.

Ora, sul fatto che gli inglesi senza vocabolario non riescano a comprendere il “Bardo”, non ho competenze. Ma so per certo che tutte le lingue romanze utilizzano il congiuntivo. In Francia si dice “Je doute qu’il soit satisfait”, non ”qu’il est satisfait” (Dubito che sia soddisfatto). A proposito di poeti, come riesco a capire Dante senza vocabolario, pur non essendo madrelingua francese, comprendo senza difficoltà “La ballade des pendus”, l’epitaffio di François Villon pubblicato nel 1489. Certo, la lingua nei secoli si evolve, e sia Dante, sia Villon utilizzano parole desuete, o scritte diversamente da oggi. Ma l’impostazione è quella.

Chiudo con una breve riflessione sugli studi classici, riservandomi di approfondire la questione in un’altra occasione. Ho preso la maturità al Liceo Classico Manzoni di Milano e mi sono laureato in Bocconi. In tutte le attività che ho svolto, gli studi liceali mi sono stati enormemente più preziosi di quelli economici. Anche nei miei 20 anni in Mondadori, culminati con una direzione decennale delle testate di business. Avere letto e riletto gli autori greci e latini in lingua originale, averli commentati, mi ha agevolato nel comprendere il loro pensiero, che è alla base della civiltà occidentale. Capacità di astrazione, facilità nel creare collegamenti anche tra situazioni apparentemente lontane tra loro, immediatezza nello stabilire le priorità, rappresentano la vera carta vincente nel lavoro. E questa carta mi è arrivata dal Liceo Manzoni molto più che dall’Università Bocconi.

Milo Goj

Milo Goj, attuale direttore responsabile de L’Incontro, ha diretto nella sua carriera altri giornali prestigiosi, come Espansione, Harvard Business Review (versione italiana), Sport Economy, Il Valore,...

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