La prendo un po’ alla lontana perché non riesco a spostare lo sguardo da un viso. Quel viso che adesso tutto il mondo conosce che mi procura una miscela di rabbia e dolore e un enorme senso di perdita. Lascio al direttore de L’Incontro la scelta se pubblicarlo qui come icona forte della bellezza perduta o se pubblicare, invece, un’altra immagine che racconta il tentativo di salvare la bellezza “disperatamente”. Parlerò di entrambi tra poco.

Per prenderla alla lontana inizio con un dialogo:

A. Diventerà una bella citta Sweetwater

J. Ci passerete un giorno o l’altro?

A. Un giorno o l’altro

Queste sono le parole conclusive del film C’era una volta il west diretto da Sergio Leone, arrivato nelle sale nel 1968 (millenovecentosessantotto, sembra incredibile a pensarci oggi).

A, è Armonica, il personaggio interpretato da Charles Bronson, J. è Jill, una bellissima Claudia Cardinale. Quel dialogo si perde nella colonna sonora di Ennio Morricone a cui Leone affida il compito di chiudere il film.

La scena è questa:

Secondo me l’insieme è “bellezza pura”. Leone, infatti, riesce a fondere la malinconia per un mondo che finisce (quello degli eroi solitari del vecchio west) e la speranza di qualcosa che sta iniziando (il west della ferrovia e, quindi, della modernità). Quella cinepresa che segue e precede la locomotiva, si tuffa tra gli operai e poi si alza lentamente su una citta che non c’è ancora ti mette di fronte all’inevitabile: Il mondo che cambia.

Quale bellezza conservare

E il punto è questo. Come sta cambiando il mondo? Cosa possiamo/dobbiamo conservare “disperatamente” e cosa possiamo/dobbiamo lasciarci dietro? Quale bellezza conservare nel cuore come bagaglio a mano? Abbiamo alle spalle (sarebbe più giusto dire sulle spalle) due anni di cambiamenti forzati. Prima la pandemia (volendo essere pignoli prima ancora c’era stata la crisi economica del 2008) e adesso c’è una guerra, ci sono le sanzioni, c’e il dolore e la precarietà. La bellezza può aiutarci in un mondo così? Non sono sicuro che “curi” (scusate la cacofonia) ma secondo me può essere un punto da cui partire o un punto a cui ritornare.

Il viso di Polina

Ho in mente due estremi. Da un lato c’è quel viso a cui accennavo all’inizio. Parlo del viso di Polina che racconta la bellezza negata (non mi sento di scrivere “perduta”).

Polina aveva otto anni, è stata uccisa a Kiev mentre viaggiava in auto insieme ai genitori Anton Kudrin e Svetlana Zapadynskaya e al fratellino Semyon. Si è salvata solo Sofia, la sorella che mentre scrivo è grave e semiparalizzata in un ospedale di Roma. Il viso di Polina è l’icona dell’insensatezza della guerra in corso in Ucraina. Quel volto/simbolo ci guarda con gli occhi che sorridono sotto un ciuffo rosa che parla ancora cosi tanto di vita e di futuro che la cosa spacca il cuore.

Rubando il dialogo a Sergio Leone credo che tutti noi potremmo dire: “Sarebbe diventata una bellissima ragazza Polina”. Ma nessuno di noi lo saprà mai. Non conosceremo i suoi stupori e gli eventuali capricci. Non racconterà a nessuno i suoi gusti musicali e i suoi sogni. Non socchiuderà quelli occhi per farsi attraversare dalla felicità del primo bacio. Non avrà una professione, un’auto, non vedrà i film che arriveranno nelle sale, non guarderà un quadro meraviglioso, un’architettura stupenda, un paesaggio incontaminato o due occhi innamorati. E non riceverà mai più nessuna carezza su quei capelli.

Per non dimenticare

Chiedo scusa a chi mi starà leggendo perché so che sto trasmettendo dolore ma è proprio questo il mio intento. Voglio urlare l’insensatezza della perdita di bellezza e futuro. E mi piacerebbe che L’Incontro o qualche suo lettore suggerisse un modo perché quello sguardo pieno di futuro di Polina non si spegnesse. Potrebbe essere un premio, una rubrica, qualsiasi cosa ma, ripeto, mi piacerebbe che il ricordo di Polina le sopravvivesse. Scrivete a L’Incontro se vi viene qualche idea.

Il monumento

Ho citato la bellezza negata e adesso parlo di bellezza protetta. Il Post ha pubblicato l’immagine di una statua di qualche città dell’Ucraina avvolta da un materiale protettivo in previsione di un possibile attacco delle forze russe nella città. Questa foto di (Xinhua/Ren Ke) parla di speranza oltre ogni ragionevole logica. Quel nylon che non proteggerà la statua della bombe per me è una specie di “stele di Rosetta” che ci dice quanto conti proteggere e conservare la memoria e la bellezza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Quello stendere il nylon attorno alla statua, insomma, è un urlo a voce altissima contro la brutalità e l’insensatezza, probabilmente e stato anche un rito collettivo ed è un modo per far sopravvivere quella statua anche se un bombardamento la distruggesse per sempre.

C’è una frase bellissima di Banksy che dice: “Dicono che si muoia due volte. Una volta quando si smette di respirare e una seconda volta, un po’ più tardi, quando qualcuno dice il tuo nome per l’ultima volta”.

Quel nylon pronuncerà il nome di quella statua, per sempre. Cosí come la striscia rosa tra i capelli di Polina accarezzerà per sempre il suo bellissimo viso.

Gabriele Isaia

Gabriele Isaia

Ha fatto il giornalista economico, ha aperto una sua società di comunicazione strategica, ha avuto “incontri” con l’architettura, l’arte contemporanea, le start up innovative e il personal branding....

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