Vorrei essere ricordato come una persona onesta, sincera, leale, che ha creduto in taluni valori fondamentali dell’uomo: la libertà di movimento, di parola e di stampa; la giustizia, la fratellanza, la tolleranza e la fiducia nel progresso democratico delle persone. Come una persona che si è sempre opposta a tutti i tentativi di prevaricazione, d’imposizione forzata in sede politica o religiosa. Sul mio sepolcro, il motto di Saul Bellow: “Qui giace un vinto (dalla morte) che non si è mai arreso.
Bruno Segre
Purtroppo non ho mai avuto modo di incontrare personalmente l’avvocato Bruno Segre. Però ne conosco i principi, li apprezzo e li condivido. Per questo sono orgoglioso di essere stato chiamato, nel 2022, a dirigere L’Incontro, testata da lui fondata nel 1949, e sempre ispirata ai suoi valori. Oggi Segre, scomparso lo scorso 27 gennaio, avrebbe compiuto 106 anni. L’Incontro ha voluto commemorarlo pubblicando, dopo il breve testo qui sopra, scritto da lui e che ben lo rappresenta, il suo ricordo del nostro editore, Riccardo Rossotto, del direttore del Centro Studi Piero Gobetti, Pietro Polito, e del nostro autore Alessandro Re, che in questi anni ha collaborato con Bruno Segre, soprattutto con interviste riportate su L’Incontro.
Milo Goj, Direttore responsabile L’Incontro
Gli insegnamenti del Fondatore
Proprio oggi il nostro Fondatore avrebbe spento 106 candeline. Invece sarà il primo suo compleanno senza… il protagonista. Credo che questa testata gli debba molto se non tutto. Ma non gli piacerebbero i coccodrilli o i ricordi agiografici. Me lo ripeté spesso, quasi con fastidio. Bisogna guardare avanti, sempre e comunque, non perdendo il sentimento della memoria, anzi, ma senza trastullarci sulle commemorazioni. Penso che tutti quelli che stanno leggendo questo articolo lo abbiano conosciuto personalmente. Ognuno avrà nel suo zainetto i suoi ricordi.
Io per rispettare la promessa fatta al Fondatore, mi limiterò a dire che mi ha fatto scoprire cosa significhi, sul serio, essere un lottatore, uno che non si arrende mai. Uno che su certi argomenti non negozia, va per la sua strada, quella che ritiene più giusta. Abbiamo avuto insieme momenti belli e indimenticabili e momenti conflittuali… dimenticabilissimi! Era duro e spietato nei confronti di chi non stimava o non reputava una controparte adeguata. Era pragmatico nell’agire ma mai fuori dal perimetro dei suoi valori. Quei valori che aveva difeso strenuamente per tutta la vita, conoscendo anche “l’odore del carcere” e il “rischio di lasciarci le penne”.
Un uomo, insomma, fortemente connaturato nel ‘900, il secolo breve ma intenso, caratterizzato da due guerre mondiali e da tre catastrofici totalitarismi, il nazismo, il comunismo e il fascismo. Il modo migliore per ricordarlo, senza con questo farlo irritare, credo che sia il racconto del nostro primo incontro che permise a questa testata di sopravvivere al suo Fondatore. Oggi potete leggere questo pezzo perché L’Incontro è ancora sul mercato, nonostante un contesto editoriale complesso e contraddittorio dove l’indipendenza e l’autonomia di questa testata valgono, se possibile, ancora di più come esempio per le nuove generazioni. Questo fa sicuramente piacere al nostro inimitabile Fondatore. Riavvolgiamo dunque il nastro e torniamo ai primi giorni del settembre 2018, alla vigilia del suo centesimo genetliaco.
Il primo incontro con l’avv. Bruno Segre
Conobbi l’avv. Segre il 4 settembre del 2018 in occasione del compleanno dei suoi 100 anni. Allora ricoprivo la carica di Presidente della Fondazione Fulvio Croce e insieme al Centro Studi Gobetti e ai Consigli dell’Ordine degli Avvocati e dei Giornalisti decidemmo di programmare una serie di eventi proprio nella settimana del suo genetliaco. Come Presidente della Fondazione Fulvio Croce mi occupai pertanto di organizzare un evento di studi e approfondimenti su quella che era stata la vita del nostro collega, avvocato ma anche giornalista, fondatore e direttore della testata L’Incontro.
All’evento parteciparono moltissimi torinesi che riempirono la sala della Fondazione fino al limite della capienza consentita. Avevamo preparato una scaletta di interventi e mi fu assegnato quello iniziale, come padrone di casa, che decisi di dedicare alla modernità del pensiero del nostro festeggiato. Non avevo conosciuto personalmente l’avvocato prima di quell’evento ma avevo letto alcuni libri sulle sue gesta e soprattutto avevo sfogliato alcuni numeri del periodico diretto e realizzato da Segre. Mi concentrai pertanto su tutte quelle iniziative che Segre, fin dal dopoguerra, aveva coltivato nel campo della difesa dei diritti civili, della pace, della laicità dello Stato.
La serata fu completata da un’altra serie di interventi di colleghi che si erano divisi i compiti sviluppando aspetti diversi della poliedricità del nostro collega. Segre era arrivato in grande forma, camminando con un bastone “che uso soltanto per sicurezza”, ci tenne a precisarmi subito. Si sedette al mio fianco e ascoltò in rispettoso silenzio tutti i vari interventi che si erano succeduti sulla sua storia, sulla sua figura, sulle sue attività in campo editoriale, professionale e politica. Mi ricordo che dopo circa tre ore di interventi, sottovoce, avvicinandomi al suo orecchio, gli chiesi se fosse stanco o se volesse dire due parole in chiusura. In caso contrario, saremmo passati direttamente al piccolo rinfresco che avevamo organizzato per festeggiarlo.
Segre non mi lasciò finire la frase, dicendomi “ci mancherebbe: certo che mi piacerebbe chiudere commentando le cose che ho sentito. Non sono assolutamente stanco, per cui ci tengo a prendere in mano il microfono”. Il tono e la perentorietà della sua affermazione incominciarono a farmi capire la personalità di questo collega che aveva vissuto una vita intensa, appassionata, coraggiosa nel secolo, cosiddetto breve ma tragico, del ‘900. Prima come ebreo e poi come partigiano aveva visitato le patrie galere, rischiando anche la vita in diverse occasioni. Nel suo intervento di chiusura, ovviamente tutto a braccio, e anche questo aspetto, imparando a conoscerlo, sarebbe diventato un tratto distintivo della sua personalità, esordì dicendo che queste occasioni di memoria o comunque di festeggiamento non gli erano mai piaciute.
Gli sembravano sempre delle esagerazioni formali più che delle riflessioni sostanziali. Disse però di avere sentito un intervento, quello mio, che lo aveva stuzzicato, gli aveva fatto alzare il sopracciglio. Gli era piaciuta l’idea che qualcuno avesse sottolineato la modernità del suo pensiero; la sua visione sui diritti civili degli esseri umani, la sua speranza che la pace non fosse una parola vuota ma diventasse una realtà concreta in un mondo che invece rischiava di essersi dimenticato delle tragedie del ‘900. Si girò verso di me, alla fine del suo intervento, e disse alla platea di colleghi, di magistrati, di amici e di sostenitori, che ringraziava la Fondazione Fulvio Croce e il suo Presidente perché gli avevano fatto passare una serata diversa e stimolante: chiese il permesso, lui, sempre arcigno e duro, di darmi un bacio di riconoscenza.
E così ci abbracciammo e fu l’inizio di quella che considero una delle avventure più incredibili ma nello stesso tempo affascinanti della mia vita non solo professionale. Ci dicemmo subito che avevamo, nelle diversità ovviamente anagrafiche e di vita vissuta, una peculiarità identica: tutti e due avevamo fatto, contemporaneamente, due mestieri diversi, apparentemente lontani, in realtà molto complementari, l’avvocato e il giornalista. Quella sera nacque un grande rapporto che, ad un appassionato di storia come me, mi dischiuse la possibilità di confrontarmi con un testimone oculare delle vicende legate alla Resistenza in Piemonte e al periodo della guerra civile 1943-1945.
Quando la mattina dopo lessi su La Repubblica, in una intervista a Segre organizzata sempre per il suo centenario, che avrebbe chiuso L’Incontro in quanto non se la sentiva più di continuare a fare il direttore, il redattore, il correttore di bozze, il fattorino, il raccoglitore di fondi, ecc. ecc.., e che con grande dispiacere aveva già preparato il suo ultimo editoriale intitolato “Il Commiato”, mi permisi di chiamarlo al telefono, per ringraziarlo della piacevole serata ma anche per manifestargli tutto il mio dispiacere per la sua scelta. Combinammo di vederci, cosa che avvenne il giorno successivo. Ci tengo a ricostruire pedissequamente tutti i passaggi di quell’incontro, perché vorrei che rimanesse nella mente del lettore l’incredibile velocità delle decisioni che assumemmo in quelle ore, senza esserci mai conosciuti e non avendo quindi nessun tipo di relazione pregressa, salvo le tre ore passate insieme quella sera alla Fondazione Croce durante il suo compleanno.
Durante l’incontro, nel suo studio storico di Via della Consolata, un ufficio che sarebbe meglio definire il museo della storia di Torino, del Piemonte, dell’Italia e di un pezzo del mondo, mi spiegò meglio le ragioni della sua decisione. Lo studio era pieno zeppo di libri, riviste, ritagli di giornale, cartelline con la raccolta di documenti su specifiche tematiche oggetto di inchieste o di articoli sulla testata. Tutto più o meno ordinato… nel disordine, tutto accatastato nelle varie stanze secondo una logica che esisteva soltanto nel cervello di Bruno e della sua formidabile assistente Elena, formidabile anche per la pazienza che la contraddistingueva nei rapporti con l’avvocato.
Insomma, un sito che racchiudeva in 100 mq la storia di Segre ma che voleva dire anche la storia della nostra comunità in un secolo complesso, tragico e contraddittorio come il ‘900. Gli dissi che in un Paese come il nostro (eravamo nel 2018 e lo spirito politico che arieggiava, a me, liberale da sempre, preoccupava… non poco) era davvero un peccato perdere la possibilità di poter contare su una rivista davvero indipendente, espressione di un pensiero liberale e socialista non manipolato dalla politica dei partiti. Gli dissi di sospendere la sua decisione fino a fine anno perché mi sarei mosso per cercare di trovare una soluzione che salvaguardasse la sopravvivenza della diffusione della testata. Fu la prima volta (ce ne fu soltanto un’altra che racconterò fra poco) che lo vidi commosso, con gli occhi lucidi, con di nuovo la speranza di poter salvare il suo “bambino” editoriale. E mi misi al lavoro.
La costruzione del progetto di salvataggio della testata
Incominciai a parlarne in tutte le varie riunioni a cui partecipavo con amici, con colleghi, con clienti, con associazioni o riviste storiche con le quali intrattenevo relazioni di lavoro o di passione comune. Raccontai la storia di Segre, della sua testata, certo mettendoci tanta passione, tanta determinazione e tanta voglia di raggiungere l’obiettivo di salvare una rivista con quelle caratteristiche. Una rivista che in un panorama editoriale come quello italiano (conti in rosso, sempre meno lettori, sempre meno editori puri) non doveva finire nel cestino dei rifiuti. Raccolsi alcuni consensi dai miei colleghi di ufficio e pensai di costruire una cordata formata da una combinazione di professionisti e di imprenditori.
Per questioni banalmente di vicinanza, mi concentrai sui torinesi e sui milanesi che frequentavo quotidianamente per lavoro. E così incontro dopo incontro, serate dopo serate, tutte dedicate ad immaginare non tanto il “se” ma il “come” poterci assumere la responsabilità folle di continuare l’attività editoriale di Bruno Segre, arrivammo poco prima di Natale a definire la formazione finale della squadra di quelli che nominai personalmente “I Coraggiosi”. Stendemmo un piano editoriale, un manifesto di valori, un piano industriale anche per capire quello che doveva essere l’investimento per rilevare da un lato la testata e dall’altro per trasformarla da cartacea a online.
Era già una pazzia quella di comprare una testata giornalistica in un panorama editoriale fallimentare, sarebbe stata infatti una tragedia immaginare di mantenerla con la formula cartacea. Studiammo una soluzione tecnologica che ci permettesse di diventare una rivista della cosiddetta Rete su internet. Lo sforzo fu quello di non essere velleitari, ma di non arrenderci neanche di fronte alle decine di difficoltà che incontrammo o che comunque si potevano immaginare all’orizzonte. La svolta che ci fece decidere di procedere nell’operazione fu la consapevolezza di realizzare questo progetto non certo con finalità di lucro… anzi, ma di conservare in vita una testata con l’auspicio che servisse ai nostri figli e ai nostri nipoti per avere il riferimento di un pensiero indipendente di stampo liberal-socialista.
Il giorno prima di Natale tornai quindi dall’avvocato Segre dicendogli che avevo completato il lavoro e che volevo comunicargli gli esiti della mia indagine. Nella solita stanza del museo-ufficio di Via della Consolata, guardandoci negli occhi e dicendoci con il sorriso sulle labbra che sarebbe stata una pazzia, gli comunicai di aver trovato i 18 “Coraggiosi” (a cui poi se ne aggiunsero 3 negli anni successivi), 9 torinesi e 9 milanesi, pronti ad autotassarsi e a costituire una società a responsabilità limitata che avrebbe rilevato la testata proseguendone la pubblicazione con due direttori: uno di grande esperienza come Beniamino Bonardi, l’altro, molto più giovane, uscito dal master di comunicazione dell’Università di Torino, Alessandro Cappai.
Credo che si meritino la citazione i 20 Coraggiosi che insieme al sottoscritto hanno permesso all’Incontro di essere ancora vivo e in Rete: Massimo Vergnano, Luigi Macioce, Piero Gastaldo, Massimo Ballario, Massimiliano Basilio, Mario Napoli, Massimo Chioda, Paolo Grandi, Giovanni Paviera, Fulvio Gianaria, Claudio Elestici, Bernardo Bertoldi, Giulio Cerioli, Lorenzo Lamberti, Vittorio Musso, Fabio Ghiberti, Andrea Bairati, Claudio Zucchellini, Roberto Cottellero, Alberto Caveri, Gianluca Morretta.
Divenni così presidente della società editrice a responsabilità limitata de L’Incontro, con Andrea Bairati amministratore delegato. Questa fu quel giorno del dicembre del 2018 la seconda volta in cui vidi Bruno Segre commosso: abbracciandomi mi disse “grazie: io ci sarò sempre con voi!”.
L’inizio dell’avventura online
Di lì partì una avventura con un orizzonte temporale incerto: speravamo di andare avanti qualche anno passando poi il testimone a dei giovani interessati a portarne avanti il progetto editoriale. Non ci ponevamo obiettivi specifici, salvo quelli, visto la gratuità della rivista diffusa online, di avere una sostenibilità economica supportata da una raccolta fondi di amici o comunque di soggetti interessati a che L’Incontro non chiudesse. Organizzammo due indimenticabili presentazioni della “pazzia editoriale” la prima a Torino alle OGR, nel marzo del 2019, la seconda a Milano, presso la Fondazione Feltrinelli, nel successivo mese di maggio, quando presentò il nostro progetto, naturalmente appoggiandolo, Gad Lerner, amico e estimatore di Bruno Segre. Sono passati oltre 5 anni da quelle date e siamo ancora vivi, nonostante le mille difficoltà incontrate e per ora superate.
Da oltre due anni, dopo la dipartita di Bonardi e le successive dimissioni di Cappai, abbiamo un nuovo direttore, Milo Goj, un giornalista con un grande passato di direttore soprattutto in riviste del mondo Mondadori. Goj ha portato nuove firme al giornale e ha preso in mano, diventando anche lui un “prigioniero” de L’Incontro, la conduzione della testata con passione ed esperienza. L’Incontro continua a rimanere una testata indipendente fondata nel primo dopoguerra, aperta al contributo di tutti, nel perimetro dei valori espressi nel Manifesto citato prima. Nel tumultuoso e affollatissimo mercato editoriale della Rete, uno dei grandi problemi di una rivista come L’Incontro è quella di trovare un suo posizionamento identitario, tale da diventare un punto di riferimento di un certo target di lettori. Su questo punto abbiamo ancora delle praterie di miglioramento da realizzare anche per poter supportare il sostentamento della rivista dal punto di vista economico.
Proprio quel posizionamento identitario per cui, in un mondo confuso e ritornato sul baratro degli incubi bellici, un mondo in cui le democrazie devono resistere a un assalto insistente delle autarchie e delle dittature, è importante far sopravvivere delle testate giornalistiche che si battano per la salvaguardia dei valori della libertà, della democrazia, della giustizia, anche sociale. Come diceva Bruno Segre, su questi temi, non dobbiamo arretrare e “non dobbiamo mai arrenderci”. E questo lo dobbiamo per responsabilità ai nostri figli e ai nostri nipoti a cui, a differenza nostra, lasciamo un mondo peggiore di quello che abbiamo ereditato.
Riccardo Rossotto
Il mio Bruno Segre
Il mio incontro con Bruno Segre è avvenuto nel segno dell’obiezione di coscienza e di Aldo Capitini, compagno e maestro per lui, maestro ideale per me. Nei miei colloqui con Segre è tornato sovente il nome del filosofo italiano della nonviolenza evocato sempre con simpatia, stima e anche, perché non dirlo, a volte con una certa ironia, a volte con scetticismo, per la distanza che salta agli occhi tra il laico religioso (Capitini) e il laico laicista (Segre). Ne abbiamo parlato a lungo quando per il Centro studi Piero Gobetti abbiamo organizzato le manifestazioni per i suoi cento anni, con la sua supervisione e con la collaborazione di Maria Grazia Toma ed Elena Margando.
In occasione della morte di Capitini, il 19 ottobre 1968, Segre dedica all’amico un esauriente ritratto (La scomparsa del nostro Capitini, “L’INCONTRO”, ottobre 1968, firmato: «Sicor»). L’amicizia tra i due era sorta nel 1949, quando il processo al primo obiettore di coscienza, Pietro Pinna, li aveva fatti conoscere. Da allora Segre è diventato l’«avvocato degli obiettori di coscienza»; con le parole di Capitini: «un nobilissimo e generoso compagno» del Movimento nonviolento e degli obiettori di coscienza.
Non a caso il primo fascicolo de “L’INCONTRO” (settembre 1949) è largamente dedicato all’obiezione di coscienza. In prima pagina viene data la parola a Pietro Pinna, il primo a definire il suo «rifiuto» del servizio militare come «obiezione di coscienza» (Marco Labbate, Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana, Pacini, Pisa 2020), con una esplicita presa di posizione del giornale: «Pietro Pinna si sacrifica per tutti i giovani italiani. Il suo esempio indurrà il legislatore italiano a tener conto dei tempi nuovi con norme nuove. Pietro Pinna ha posto col suo gesto coraggioso un problema che va risolto. Gli uomini consapevoli debbono seguirlo in questa battaglia ideale in una fede per una fede di dignità e libertà». All’argomento è dedicata l’intera terza pagina che si apre con il titolo «I cittadini del mondo salutano in Pietro Pinna il difensore della pace e della fraternità». Viene riferito l’interessamento di Garry Davis per l’obiettore di coscienza francese Jean-Bernard Moreau e vengono offerte al lettore le opinioni in diversa misura favorevoli all’obiezione di un magistrato, Giovanni Durando e del monsignor Carlo Pettenuzzo, docente dell’Istituto internazionale Salesiano Don Bosco di Torino.
Le parole scritte alla morte di Capitini possono essere riprese ed estese a Bruno Segre: «Con il suo sorriso mite ed arguto, Capitini era un esempio per noi tutti di serenità e di fede, quasi un sacerdote laico, coerente nel pensiero e nell’azione, solidale con i deboli, i malati e i morti, rivelatore di verità spirituali, amico dei perseguitati d’ogni terra. Per questo patrimonio ideale, di cui era portatore, per questa tensione morale, per il suo incitamento all’amore per tutti, Capitini, oltre la morte, rimane in noi come una parte della nostra stessa vita, come una speranza dell’Umanità di domani».
Scorrendo le pagine de “L’INCONTRO”, ho scoperto che, in senso generale, si può ricostruire un ritratto di Bruno Segre nelle parole scritte da Aldo Capitini. Mi spiego. Nel settembre 1968, “L’INCONTRO”, in occasione dei suoi primi vent’anni, pubblica una intera pagina, con un editoriale di Sicor, intitolato Un onesto lavoro, e con i saluti e le felicitazioni degli antifascisti, dei partigiani, dei mazziniani, dei giornalisti, dei mondialisti, dei pacifisti e degli obiettori di coscienza. Per i pacifisti interviene, a un mese dalla morte, Capitini. Ebbene, le parole che egli usa per delineare l’attività de “L’INCONTRO” sono perfettamente calzanti nell’illustrare anche la personalità del suo fondatore.
Il giudizio di Capitini vale per i primi vent’anni ma anche per quelli successivi: “L’INCONTRO” è una «raccolta preziosa di notizie e di bibliografie, indispensabile e da consultare per ogni lavoro di storia contemporanea»; inoltre, sul piano politico, il giornale, con i commenti dei suoi collaboratori e gli editoriali illuminati e illuminanti del suo direttore, offre ai lettori un «giudizio necessariamente severo» sulle «frequenti ricadute dell’incertezza democratica italiana».
Insieme alla sua creatura prediletta, Segre ha attraversato un secolo con una «sicura navigazione», essendo protagonista di un movimento di idee, affrontando e superando crisi e problemi, andando incontro a conferme e anche a delusioni, informando sul meglio che è avvenuto nelle lotte ideologiche e politiche, sospingendo instancabilmente verso «una prospettiva etico-pacifista», richiamandosi fedelmente allo spirito della Resistenza, a «quella rivoluzione intellettual-popolare che esigeva una nuova società e nuovi rapporti tra i popoli» (sono espressioni di Capitini).
Nello scritto di Capitini, a cui ho fatto riferimento, s’incontra un vocabolo che a mio avviso riassume la personalità di Bruno Segre: costanza. Capitini attribuisce a Bruno e a “L’INCONTRO” una costanza «tutt’altro che frequente». Di che cosa si tratta? Qual è la costanza di Bruno Segre? In realtà, si tratta effettivamente di una merce rara che non si trova facilmente e non è a disposizione a buon mercato in tutti i negozi. Per avere una risposta, o meglio per confermarmi in quella che avevo immaginato, una mattina, quando ha compiuto 100 anni (6 settembre 2018), sono andato a fargli visita nel suo studio e sede del giornale, in via della Consolata 11, al secondo piano, senza ascensore. L’ho trovato al tavolo di lavoro, attrezzato con righello e colla, intento a dare gli ultimi ritocchi al numero de “L’INCONTRO”, il giornale da lui stesso costruito in modo rigorosamente artigianale a mano.
Lo scopo della mia visita era domandargli se conosceva il libro di Vasco Pratolini, (La costanza della ragione, Mondadori, Milano 1963; nuova ed. 1976), che è quasi un breviario di educazione morale alla ragione eletta a sistema e teorema. Egli non lo ha letto, ma si è riconosciuto sia nella formula la costanza della ragione sia nello spirito del libro. Faccio un solo esempio della costanza della ragione. La cattiveria, l’offesa imbrattano le mani di coloro che la praticano, in particolare «la vendetta tramuta la vittima in persecutore».
Nella sua visione l’obiezione di coscienza prescinde da motivazioni di carattere religioso: «Spesso la fede offre un rifugio ai deboli, una consolazione alle vittime, una speranza ai delusi. Se la società riuscisse a fornire agli individui ideali di progresso, di giustizia, di uguaglianza, e una condizione di vita serena e felice, il bisogno religioso forse scomparirebbe. Quante persone al mondo vivono professando scetticismo, agnosticismo o ateismo? Dunque la religione appare un surrogato per le proprie inquietudini, un alibi per sottrarsi alla ricerca di una vita razionale» (Non mi sono mai arreso, intervista con Bruno Segre, a cura di Nico Ivaldi, Lupieri Editore, Torino 2009).
Riprendendo il titolo del libro di Pratolini, si può dire che la costanza della ragione è il segno distintivo della vita e dell’opera di Bruno Segre. La sua bussola, la sua stella polare è stata e rimane la ragione, intesa (riporto parole sue annotate nel mio taccuino) come «elemento di equilibrio tra le persone che conduce le persone a meditare sulla ricerca della verità, alimentando il dubbio, sfidando tutti i dogmi, quelli religiosi e quelli politici». La ragione è la lente che il laico laicista, di cui Segre è una perfetta incarnazione, adotta per leggere il mondo e agire nella realtà. Se l’umanità si può dividere tra chi crede di avere la verità e chi cerca la verità, Bruno Segre appartiene al popolo dei tenaci che non temono di andare contro corrente per rimanere fedeli agli ideali di libertà. di giustizia e di pace.
Pietro Politi, Direttore del Centro studi Piero Gobetti
L’incontro con l’Avvocato Bruno Segre
La mia conoscenza con l’Avv. Bruno Segre (nonostante fossimo Colleghi non ci eravamo mai frequentati prima) risale alla nascita stessa della nuova testata de L’INCONTRO, in versione “online”, ed alla sua presentazione alle OGR di Torino. Da lì iniziai un’assidua frequentazione con lui che col tempo divenne amichevole e, alla fine, di grande affetto. Praticamente ogni settimana (eccetto il periodo del COVID) mi recavo a casa sua dove in un tripudio di libri, riviste, giornali ed appunti sparsi ognidove, mi riceveva per le interviste che sono poi state pubblicate su L’INCONTRO.
Si è trattato, in sostanza, di ripercorrere insieme a lui ed alla sua prodigiosa memoria la storia del nostro Paese, dagli anni della seconda guerra mondiale sino ad oggi. In questi incontri, seduti sul suo sofà, si leggevano insieme alcune notizie interessanti che L’INCONTRO cartaceo aveva commentato negli anni (ad esempio la crisi dei missili a Cuba, l’assassinio di Moro, la battaglia per il divorzio e quella dell’obiezione di coscienza, oltre a molte altre) e poi le si “attualizzavano” in base ai suoi commenti ed alle sue osservazioni, sempre lucide e puntuali.
Gli articoli “in forma di numero di 58 interviste” sono stati quindi pubblicati su L’INCONTRO dove sono visibili nella sezione “La nostra storia – le battaglie de L’INCONTRO raccontate dal fondatore ad Alessandro Re”. Tali articoli si sono conclusi con il commento sul Commiato che nel dicembre 2018 l’Avv. Segre aveva pubblicato sull’ultimo numero cartaceo de L’INCONTRO.
Ritengo che si debba risalire al primo numero di questa testata, nel 1949, per apprezzare ancora una volta le ragioni, sempre attuali, specie oggi, della scelta del nome della stessa e della filosofia editoriale de L’INCONTRO, riproponendo il testo dell’intervista già pubblicata sulla testata “online”:
Siamo così giunti a parlare de L’Incontro. Quali sono state le ragioni di questa scelta?
Ho già fatto cenno al forte coinvolgimento che aveva provocato in me e in tanti altri giovani, nel dopoguerra, da un lato, il blocco di Berlino, nel 1948/49, con la radicale contrapposizione tra USA e URSS e il rischio di una nuova guerra, e, dall’altro lato, l’ideale del pacifismo.
Così, preso da passione improvvisa, iniziai da solo, senza alcun aiuto, né materiale, né finanziario, a scrivere gli articoli, a farli stampare, a spedire le copie e a diffonderle. Inizialmente pubblicai 11 numeri all’anno, poi ridotti a 10, cioè un numero solo in gennaio – febbraio e in luglio – agosto. Anche il colore della testata mutò, in quanto all’originario nero, sostituii un acceso rosso vivo.
Perché hai scelto di chiamarlo L’Incontro?
Perché rappresenta bene l’opposto di quanto era già avvenuto pochi anni prima e che si temeva avvenisse di nuovo e cioè lo “scontro” di civiltà che allora pareva poter provocare una guerra ancor più distruttiva della precedente, a causa delle bombe atomiche già sperimentate sul Giappone.
Quindi il mio ideale era ed è quello dell’”incontro” tra i popoli, tra gli uomini e le donne, con il superamento degli steccati ideologici e religiosi. Che è quanto si auspicava potesse avvenire anche in Italia, dove era in atto una forte radicalizzazione delle opposte ideologie, rappresentate dai Partiti di sinistra, da un lato, e dalla Democrazia Cristiana, dall’altro.
Quali sono stati in definitiva i grandi temi sui quali L’Incontro si è poi battuto per settanta anni e che continua ancor oggi a sostenere?
In poche parole la pace, la fratellanza tra i popoli, l’antimilitarismo, la laicità dello Stato, l’antirazzismo, la conquista dei diritti civili e un certo anticonformismo, proprio per sciogliere i nodi della società italiana contemporanea. Ritengo opportuno richiamare le parole che allora usai nel mio primo articolo di fondo, apparso nel marzo 1949, dal titolo, assai significativo, “L’idea nuova”.
“Nessuno dei problemi vitali della nostra generazione potrà esser risolto finché non vedremo con chiarezza attorno a noi. Se il Cristianesimo, l’Ebraismo, il Liberalismo, il Socialismo o il Comunismo non sono riusciti a preservare di per sé soli l’umanità dal flagello di due guerre tremende e dalla prospettiva di un conflitto atomico che significherebbe la scomparsa di ogni vestigia di civiltà, occorre che qualcosa di nuovo guidi gli uomini del nostro tempo.
Qualcosa che dia loro fiducia in sè stessi e guidi la loro esistenza attraverso una sintesi dei valori tradizionali: lo spirito di carità del Cristianesimo, l’esigenza di giustizia dell’Ebraismo, l’autonomia individuale del Liberalismo, l’emancipazione collettiva del Socialismo, la trasformazione economica – sociale del Comunismo.
Questo giornale intende appunto promuovere questa sintesi e ricercare una garanzia di libertà e di sicurezza, di serenità spirituale e di fede nella vita che è venuta a mancare agli uomini d’oggi. Perciò ospiterà diversi e contrastanti punti di vista che permetteranno di orientare liberamente un’opinione su temi di interesse universale come la salvaguardia della pace, la collaborazione internazionale, l’educazione della gioventù, l’amicizia fra cristiani ed ebrei, ecc.
Temi di grande impegno, meno difficili da affrontare su un foglio indipendente da interessi particolari ed estraneo alla retorica e all’ambizione delle Associazioni, Unioni, Gruppi, ecc. Il programma cui si è accennato accomuna argomenti che solo in apparenza risultano diversi: un’Idea più alta, nel promuoverli e nel dibatterli, li riunisce innanzi alla opinione pubblica. E’ l’Idea della fratellanza e della cooperazione, in cui si concretizza il vero primato spirituale, la sola che può assicurare l’esistenza e il progresso della civiltà umana”.
BUON COMPLEANNO BRUNO, OVUNQUE TU SIA.
Alessandro Re