Tutti i romanzi dello scrittore lucano Giuseppe Lupo, a partire da quello d’esordio, “L’americano di Celenne” del 2000, hanno per sfondo storico, politico, culturale la sua regione, anche quando, come negli ultimi due romanzi, “Gli anni del nostro disincanto” del 2017 e questo “Breve storia del mio silenzio”, ora in libreria, sono ambientati in parte a Milano. Il fatto è che Giuseppe Lupo vede il mondo con gli occhi della Basilicata, tanto forte è stato l’imprinting ricevuto nascendo e crescendo nel suo paese, Atella, con genitori due insegnanti che il virus delle tradizioni glielo hanno trasmesso non solo vivendole nella pratica quotidiana, ma attraverso la cultura, la ricerca, un approfondimento che andava oltre quella del paese per innestarsi nei più vasti orizzonti del meridionalismo.
Questo aspetto emerge con forza proprio in “Breve storia del mio silenzio”, che si divide idealmente in due parti, quella che vede il piccolo Giuseppe crescere nella sua Atella assorbendo la cultura meridionale alta attraverso l’attivismo del padre, animatore del Circolo La Torre, che aveva per sede una torre che il terremoto del 1980 abbatté, e dove arrivavano personaggi di fama internazionale a portare la loro parola, il loro magistero. Nomi come quelli di Tommaso Fiore, Vito Riviello, Leonardo Sinisgalli, Maria Padula. Ad essi vanno aggiunti gli echi dei film di Rosi (“Cristo si è fermato a Eboli”) e di Pasolini (“Il vangelo secondo Matteo”) girati in gran parte in Basilicata.
“Il Circolo La Torre invitava intellettuali da Roma, Milano, Napoli, Bari e la popolazione era curiosa di ascoltare quegli uomini dallo sguardo severo e pensieroso, nascosto dietro il vetro degli occhiali. Mio padre convocava collaboratori di fiducia e li incaricava di assistere gli ospiti nelle necessità quotidiane – un bicchiere d’acqua, un gelato, un analgesico per il mal di testa -, una specie di ombra che non li facesse sentire trascurati”.
Il titolo del romanzo di Lupo, “Breve storia del mio silenzio”, prende spunto proprio da questa situazione, nata ovviamente per attirare l’attenzione dei genitori, che presero a blandirlo, facendogli accettare questo nuovo esserino che gli aveva usurpato il privilegio del figlio unico, dopo averle provate tutte, compreso il dentista. Una visita quest’ultima che ha del comico, dopo un viaggio in 600 fino a Potenza. Fosse diventato muto per della… ruggine in bocca?
“ ‘Ruggine?’ si meravigliava lui (il dentista, n.d.r.) e riprendeva a infilarmi i ferri in bocca ‘Negativo, negativo… nessuna ruggine.’ Ce ne tornammo a casa con la convinzione che mia madre e il dentista non si fossero capiti, che entrambi cercassero qualcos’altro rispetto a quel che si erano detti.”
Sono scene, questa e altre raccontate sempre con divertimento affettuoso da Giuseppe Lupo, di un’Italia ancora ingenua, che pur tuttavia rappresenta un metro di paragone che troverà un senso quando quel bambino, che naturalmente riprenderà a parlare, diventerà un giovanotto e, finito il liceo, verrà spedito per volontà del colto e ambizioso padre a Milano, iscritto alla Università Cattolica, a studiare Lettere. Un passaggio che, più di altri, misurerà il portato imprescindibile che la sua formazione lucana, meridionale, avrà nel confronto con una realtà completamente diversa. Ed è la scena bellissima di quando i genitori lo accompagnano alla stazione, per un viaggio a quei tempi solo notturno verso il nord, e il padre guarda il cielo “interessato a cercare le stelle dei Tre Re mentre la campanella della stazione ci avvertiva del treno in arrivo da Potenza”, per poi indicarsele tra loro, chi le ha viste, chi no. “Cercai anch’io i Tre Re, non appena il treno si mosse. Volevo assicurarmi che fossero davanti a indicarmi la strada, come diceva mio padre, e io potessi vestire i panni del quarto re magio, quello aggiunto, che nessuno aveva mai visto ma tanti avevano raccontato.”
A Milano Giuseppe Lupo studierà e, nello stesso tempo, scoprirà la sua vocazione di scrittore. Coraggiosamente presenterà i suoi scritti ai nomi più importanti della letteratura, della critica e della editoria milanese, ma i risultati saranno per alcuni anni sempre demoralizzanti. Non per lui, che comunque continuava a presentarsi in giro, presso letterati ed editori, un racconto in questo senso, che serve anche a capire la Milano del tempo. Arriverà così anche al cospetto di Cesare De Michelis, che il destino, anni più avanti, avrebbe fatto diventare l’editore del suo primo romanzo e, quindi, di tutti gli altri, ma che in quella occasione, al termine di una conferenza milanese alla quale Lupo aveva assistito, gli disse: “Deve trovarsi un padrino”. Ricerca che, dopo qualche tempo, lo avrebbe fatto arrivare verso un burbero maestro dell’editoria italiana, Raffaele Crovi, già braccio destro di Elio Vittorini, con un passato di direttore editoriale della Rusconi, della Bompiani, della Giunti, e che in proprio aveva fondato le edizioni Camunia, salite alla ribalta in particolare con l’opera di Raffaele Nigro, altro lucano, con il romanzo “I fuochi del Basento” con il quale avrebbe vinto il Campiello nel 1987.
Giuseppe Lupo racconta come, con il manoscritto di quello che sarebbe poi stato il suo romanzo d’esordio “L’americano di Celenne”, storia di un emigrante lucano a New York, si presentò da Crovi, il quale vedendo del buono, gli diede dei consigli da par suo. Alla fine non gli fece da padrino, ma, come gli disse Crovi, del quale fa un ritratto affettuoso riconoscibile per tutti coloro, compreso chi scrive, che con lui hanno lavorato, gli fece da mallevadore. Perché il termine ultimo, o quasi, del suo romanzo coincise anche con la fine dell’esperienza editoriale di Camunia. “Però, non ti preoccupare” gli fece Crovi “spedisci a Bompiani, Mondadori, Feltrinelli, Einaudi, Rizzoli, Marsilio.”
E proprio quest’ultimo editore lo accolse.
Diego Zandel
Giuseppe Lupo, Breve storia del mio silenzio, Marsilio, pag. 202, €. 16,00