L’opinione di un Presidente è stata oscurata: inibita alla diffusione!
Per la prima volta, nella storia contemporanea, ad un Capo dello Stato è stato impedito di esprimere la sua opinione.
In più, si tratta del Presidente della più ricca nazione del mondo: l’America
In più, il clamoroso episodio è avvenuto nel paese in cui la costituzione del 1789 pone nel suo primo articolo (1° emendamento): “La Freedom of Speech” il diritto di parola cioè, di poter esprimere sempre e comunque la propria opinione, di manifestare il proprio pensiero liberamente.
Noi viviamo in una Europa in cui, sempre in quella fibrillante stagione di fine ‘700, il filosofo liberale Voltaire, coniava una frase che sarebbe passata alla storia dell’umanità intera, come la cifra, la miglior sintesi, del significato di “Libertà di Opinione”: “Non condivido nulla di quello che affermi – diceva Voltaire – ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”.
Cosa è successo di tanto grave oggi?
Quale evento ha giustificato un intervento censorio nei confronti della più alta carica dello stato, della nazione culla delle democrazie moderne?
Donald Trump è riuscito anche in questa impresa!
Con le sue ripetute e sempre più gravi dichiarazioni pubbliche, ha via via costretto tutti i principali social network, fino a pochi minuti prima grandi e decisivi altoparlanti delle sue fake news istigatrici di odio, a cancellargli i suoi profili, i suoi account, impedendogli così di continuare a sobillare i suoi sostenitori alla violenza.
Certo, lo stupro di un simbolo della democrazia americana come Capitol Hill, ha costituito un fatto inammissibile anche per quelle piattaforme social che avevano sempre fatto, negli ultimi anni, da cassa di risonanza alla violenza verbale di Trump, lucrando sui favolosi incassi delle pubblicità connesse a tale fenomeno politico.
I vari Twitter, Facebook, Google gli hanno chiuso la porta in faccia scatenando ovviamente un vivace e appassionato dibattito su questa spinosa questione.
Come ha giustamente ricordato in queste ore Gianni Riotta, il tema della libertà di espressione e delle regole da imporre alle piattaforme per non diffondere violenza pur tutelando il dibattito, è cruciale in questo XXI secolo.
Non dimentichiamoci che l’Unione Europea è considerata leader su questa tematica e il prof. Luciano Floridi, che insegna in Inghilterra, è probabilmente uno degli esperti più visionari in questa delicatissima materia, fondamentale per la sopravvivenza delle nostre fragili democrazie liberali.
Di fronte alla decisione dei principali social network americani di oscurare Trump, l’opinione pubblica si è divisa in tre partiti.
(i)Quello scandalizzato dalla limitazione alla libertà di opinione del Presidente; (ii) quello dell’approvazione incondizionata della scelta operata dagli editori dei social network, una scelta che è arrivata in ritardo rispetto a quando avrebbe potuto essere adottata, ma è stata giusta; (iii) quello, infine, che ha condiviso la scelta, anche se tardiva, ma si pone il problema se sia corretto che una decisione così difficile e importante per tutelare l’informazione dell’opinione pubblica mondiale, sia affidata esclusivamente all’autodisciplina dei big players delle piattaforme digitali?
Se cioè non sarebbe più trasparente, necessario ed opportuno immaginare un’autorità pubblica, che, a certe condizioni condivise, regolasse questa spinosa e vischiosa materia?
Proviamo ad approfondire i punti giuridici più importanti della questione.
Finora, la giurisprudenza americana, è sempre stata fortemente portata alla tutela del diritto sancito dal 1° emendamento della Costituzione.
Ha consolidato il principio che deve essere accertata rigorosamente l’esistenza di un “nesso di causalità” tra le “parole di fuoco” e “il pericolo imminente” dalle stesse originato.
La scelta operata nei giorni scorsi dagli editori delle piattaforme digitali americane ha confermato tale principio, oscurando il Presidente, reo, a loro avviso, di avere, con le sue parole e i suoi ossessivi messaggi, istigato i suoi sostenitori alla violenza fisica, all’assalto della culla del sistema democratico, il Parlamento.
Nell’ambito della categoria concettuale e giuridica della “politica di moderazione”, a cui devono ispirarsi i media off line o on line, l’unica esimente è costituita dalla buona fede: in sua assenza, l’editore risponde di mancata vigilanza e/o diretta corresponsabilità dei danni conseguenti alla diffusione di messaggi che incitano all’odio.
Tutti gli “Over the Top” in questi anni si sono sempre difesi di fronte a contestazioni sulla loro responsabilità di aver diffuso contenuti illeciti, violenti, incitanti all’odio e alla violenza, sostenendo di non essere delle media company ma semplicemente degli organizzatori di “piazze virtuali e digitali” dove gli esseri umani possono scambiarsi opinioni e idee e confrontarti sulle stesse.
Dunque, su tale presupposto, essi non possono e non devono rispondere legalmente dei contenuti dei messaggi che transitano sulle loro piattaforme.
Nel caso Trump, gli amministratori delegati dei più importanti social network, hanno condiviso la valutazione che il Presidente aveva esagerato e aveva posto in essere, con le sue dichiarazioni, un “pericolo imminente e concreto”.
Salvo il ritardo nella verifica (il Campidoglio era ormai stato assalito e vandalizzato!) si è concretizzata la fattispecie dell’esistenza di un nesso di causalità tra le parole dette e scritte da Trump e la loro conseguenza sulle persone che avevano ricevuto tali contenuti.
Ma è giusto, corretto, davvero tutelante per la comunità dei cittadini di una nazione, che tale scelta censoria sia esclusivamente delegata ai “padroni” dei social network, titolari di interessi di business sicuramente contaminanti nelle loro scelte imprenditoriali?
Il prof. Antonio Nicita, ha sviluppato un articolato e costruttivo ragionamento che ci permette di capire come si potrebbe individuare una soluzione co-gestita tra i privati proprietari delle piattaforme digitali, i vettori cioè dei contenuti a rischio, e le autorità pubbliche, delegate al controllo dell’ordine pubblico e della pacifica coesistenza fra i cittadini nei vari stati.
La tesi del prof. Nicita parte da tre considerazioni preliminari: (i) la Suprema Corte degli Stati Uniti ha sempre e soltanto considerato il “pericolo imminente e concreto” come unica deroga al contenuto del 1° emendamento della Costituzione americana; (ii) a maggio del 2020 il Presidente Trump ha richiesto ed ottenuto dagli editori digitali la rinuncia alla “moderazione” nella valutazione dei contenuti diffusi, in modo tale da fare diventare le piattaforme dei social network puri veicoli di trasmissione di messaggi di terzi, fuori dal perimetro delle attività delle media company; (iii) il recente Digital Services Act emanato dall’Unione Europea riconosce l’importanza della “moderazione dei contenuti” e immagina una disciplina che porti ad una cooperazione tra gli operatori privati e lo stato nella vigilanza e repressione dei contenuti illeciti diffusi nella Rete.
Il prof. Nicita richiama una ricerca effettuata qualche anno fa da quella Cambridge Analytics che aveva assunto il ruolo centrale nelle varie strategie di manipolazione dei cittadini elettori in vista delle scadenze elettorali nazionali.
Tale report evidenziava un dato statisticamente provato: dopo 68 like ad un certo contenuto, ogni essere umano diventa all’85% prevedibile con riguardo alle sue future condotte connesse con quel contenuto.
In altri termini, ciascuno di noi, dopo una serie di consensi espressi su certi contenuti, diventa ragionevolmente prevedibile nelle sue prossime manifestazione di pensiero e/o scelte comportamentali.
Sul presupposto di questa inquietante conclusione, provata statisticamente da adeguati algoritmi, è possibile dunque documentare con dati certi il tasso di probabilità per cui un certo contenuto generi un certo comportamento, socialmente pericoloso. Se questo assunto corrispondesse a verità (e gli esperti non hanno più dubbi in merito) tali strumenti di analisi permetterebbero una pragmatica soluzione nel dibattito sull’ampiezza della libertà di opinione e dei suoi possibili limiti a certe condizioni.
Infatti, se gli operatori privati, proprietari delle piattaforme digitali, mettessero a disposizione delle autorità pubbliche tali strumenti tecnologici per l’analisi predittiva dei comportamenti degli esseri umani oggetto delle indagini, si potrebbe sapere in anticipo quali di quei messaggi/contenuti ritenuti a rischio di istigazione di violenza e/o odio, potrebbero dar vita a condotte tali da concretizzare un “rischio imminente e concreto”.
Riccardo Luna ha citato Karl Popper in un suo recente articolo proprio su questa tematica.
Il filosofo della società aperta, nell’immediato dopoguerra, scriveva che “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza”; perciò, per quanto possa apparire paradossale, “nel nome della tolleranza, va affermato il diritto di non tollerare gli intolleranti”.
Per difendere la libertà di parola, è lecito dunque stroncare tutte le manifestazioni contrarie, quelle che non la tollerano.
Cancellare il diritto di esprimersi ad un violento non è solo un diritto ma un dovere delle nostre democrazie.
La materia è delicatissima e, come si può facilmente evincere, molto a rischio di manipolazioni o di interpretazioni strumentali.
Non si devono assolutamente prendere declinazioni e derive che mirino, in realtà, a comprimere il dissenso altrui.
Mi permetto di evidenziare agli anti-trumpiani, come il sottoscritto, che se legittimiamo in maniera leggera e superficiale la censura nei confronti di Trump, consolidandone il relativo diritto, senza chiederci troppi “se” e troppi “ma”, un domani potremmo trovarci di fronte ad analoghe censure, molto meno motivate ed esclusivamente mirate a togliere la parola agli oppositori e ai dissidenti, come sta già succedendo in Russia, in Cina e in altre nazioni non propriamente democratiche
Trump ha violato le regole ed è stato espulso … tardi, troppo tardi… dalla possibilità di partecipare al dibattito pubblico in corso.
Detto ciò, il controllo e l’accertamento, di volta in volta, dell’eventuale violazione della norma, è bene che sia svolto da un’autorità indipendente che rappresenti, al più alto e autorevole livello professionale, politico e di conoscenza tecnologica, una pragmatica forma di cooperazione virtuosa tra i privati e il pubblico.
In fondo, il caso Trump, con tutte le sue degenerazioni e pericolosità, potrebbe rappresentare un punto di ripartenza per trovare la miglior soluzione giuridica che bilanci la rigorosa tutela del primo emendamento della Costituzione americana con l’intolleranza verso gli intolleranti.
Riccardo Rossotto