Ci sono mostre che vanno assolutamente viste se non si vuole che il mondo ci passi accanto. Al Gres Art 671 di Bergamo – uno spazio espositivo per l’arte e la cultura ricavato da un’area ex industriale di oltre 3.000 mq, dove memoria del luogo e produzione culturale si fondono – è ancora possibile visitare la mostra di Marina Abramović, Between Breath and Fire.
Parlare di “mostra”, nel caso della Abramović, potrebbe sembrare, e forse lo è, un ossimoro. La sua arte, così profondamente performativa e immersiva, sfugge ai confini tradizionali dell’esposizione. Eppure, questa rassegna bergamasca, con le sue 30 opere, riesce a comporre un percorso artistico unico che ruota attorno a nodi concettuali fondamentali della sua esperienza artistica.
Between Breath and Fire si presenta come una narrazione tematica in cui i capisaldi dell’opera dell’artista emergono con forza e chiarezza. La mostra è suddivisa in quattro sezioni principali: Il respiro, il corpo, l’altro e la morte. Quattro elementi che costituiscono un vero e proprio spartito, attraverso il quale la Abramović ingaggia un intenso corpo a corpo con il pubblico. Si parte con la sezione dedicata al respiro, forza vitale e condizione essenziale dell’esistenza, che attraversa tutta la produzione dell’artista come ritmo fondamentale.
Qui, “Dozing Consciousness” (1997) si impone come un preludio emblematico: una sorta di risveglio della coscienza, simile a quello dantesco, dove anche il viaggio dell’artista inizia con un respiro, evocando il celebre “Ahi! “della seconda terzina della Divina Commedia.
Per Marina Abramović, il corpo è il medium per eccellenza. Lo esplora nei suoi limiti e ne indaga la presenza, collocandolo nell’orizzonte degli eventi e costringendo il pubblico a confrontarsi con la natura corporea e l’essenza dell’umanità. Questo confronto è un’autentica lezione di umanesimo che permea tutta la sua opera. La Abramović ha il coraggio di rimettere al centro della sua riflessione l’essere umano, con la sua fisicità e la sua vulnerabilità. Non è un’arte che semplicemente riflette: è un’arte che si incarna, dove “il verbo si fa corpo”.
In questa incarnazione si svela anche l’alterità, come nella performance “Rest Energy” (1980), realizzata con Ulay, in cui la tensione reciproca tra i due artisti materializza l’idea che la nostra esistenza dipenda dagli altri. L’altro è l’orizzonte umano di tutta l’opera di marina Abramovic, un messaggio politico neanche troppo nascosto che l’artista rivendica, perché una entità singola non può essere portatrice di “senso”.
Il percorso si conclude con la morte, confine ultimo e tematica ricorrente nella produzione dell’artista. La chiusura della mostra è affidata a un’esperienza cinematografica immersiva: Seven Deaths, ispirata a Maria Callas, figura che ha esercitato un’influenza magnetica sull’Abramović fin dall’infanzia. Questo lavoro, struggente e visionario, sembra suggerire che l’arte sopravvive alla morte, sia quella della Callas che quella dell’artista stessa. Guardando il film, è inevitabile richiamare alla mente Pier Paolo Pasolini, che, come l’Abramović, ha sempre messo il corpo al centro del proprio discorso artistico e che con la Callas ebbe una storia d’amore intensa e platonica allo stesso tempo. Non è un caso che l’artista abbia dichiarato di voler rifare il film di Pasolini Teorema. Anche Willem Dafoe, con il suo volto scavato e nervoso, presente nel video, sembra incarnare perfettamente il fantasma del poeta.
La grandezza di Marina Abramović – che ne fa una delle artiste più significative del secondo dopoguerra – risiede nel ribaltare l’asse della creazione artistica: non è più l’artista il demiurgo, come accadeva dal manierismo fino alle avanguardie, ma il pubblico. Il pubblico non può essere uno spettatore passivo; deve mettersi in gioco, lasciandosi coinvolgere e provocare. Riprendendo le intuizioni della Scuola di Francoforte e dei nostri Franco Fortini, per l’Abramović “la poesia, come le anime dei morti, ha bisogno di sangue per parlare”. Una mostra che è una vera e propria “scossa elettrica” da non perdere.
Domenico Ioppolo