Ho avuto il privilegio di lavorare con Franco Bernabè. Nel mio piccolo, sia chiaro. Un unico incontro noi due da soli, alle prese con il magazine “Pianeta Telecom”, l’house organ di Telecom Italia che dirigevo (ero responsabile delle attività editoriali dell’azienda) nei primissimi giorni del suo insediamento come amministratore delegato. Seduti l’uno di fronte all’altro, Bernabè aveva sfogliato il numero in lavorazione, lo aveva commentato, gli era piaciuto e mi aveva dato l’okay alla stampa. Avrei dovuto solo attendere, mi disse, il suo editoriale di saluto ai dipendenti, che arrivò pochi giorni dopo. Fu l’unica occasione d’incontro.
Per i numeri successivi e per le altre testate Telecom che dirigevo mi sarei confrontato con il mio capo diretto, Edoardo Segantini, responsabile delle Relazioni Esterne, oggi al Corriere della Sera, che comunque mi avrebbe dato grandissima autonomia, soprattutto dopo che l’azienda era entrata nella bufera dell’Opa di Colannino e aveva il suo da fare, e poi, per altre pubblicazioni, con un uomo dello staff tecnico di Bernabè, l’ing. Oscar Cicchetti. Certo, le otto testate che pubblicavamo, a parte l’house organ che puntava sull’informazione aziendale e del mondo delle telecomunicazioni, in un’ottica che mirava ad alimentare il senso di appartenenza all’azienda nei dipendenti, si occupavano per lo più di marketing, con servizi su case history di aziende clienti di Telecom Italia, in un contesto ormai – eravamo alla fine degli anni Novanta – di piena concorrenza nella fascia della cosiddetta categoria “affari”. Non potevano pertanto essere al livello straordinario dello “Il gatto servatico”, l’house organ dell’Eni, l’azienda dalla quale Bernabé proveniva, house organ voluto da Enrico Mattei nel 1955, diretto da Attilio Bertolucci, con illustrazioni di Mino Maccari e collaborazioni, tra gli altri, di Giorgio Bassani, Mario Soldati, Italo Calvino, Natalia Ginsburg, Carlo Emilio Gadda, Raffaele La Capria ed altri emeriti collaboratori, e poi proseguito, negli anni in cui io facevo le testate giornalistiche, ancor prima, quelle della Sip, da uno scrittore (e amico) come Gian Luigi Piccioli, autore di esemplari romanzi sperimentali come “Inorgaggio”.
Ma, con Bernabè, ho poi seguito di persona, seppur defilato come capita alle seconde linee della dirigenza, la sua guerra contro l’Opa, l’Offerta pubblica di acquisto, totalitaria, di Telecom Italia, da parte di Colannino, che si avvaleva del beneplacito, per non dire complicità, dell’allora primo ministro Massimo D’Alema. C’ero anch’io, pertanto, di persona nella sede di via Duccio di Buoninsegna, all’Eur, quando Bernabé parlò a tutti i dipendenti collegati via intranet. Un discorso, il suo, di grande leadership, che servì a farci stringere ancora più intorno a lui. Così come c’ero a Torino, al Lingotto, dove si svolse l’assemblea degli azionisti, diventata drammatica quando si concretizzò, per volontà di D’Alema, la non partecipazione dello Stato alla stessa.
Franco Bernabè ne parla in un capitolo importante di un suo libro, “A conti fatti”, scritto con la collaborazione del giornalista Giuseppe Oddo, e uscito in queste settimane per i tipi di Feltrinelli. Scrive Bernabé a riguardo: “Stava accadendo qualcosa di sorprendente: gli stessi ministri che avevano privatizzato la società, che avevano individuato nel nocciolo duro il passaggio intermedio per trasformarla in pubblic company, che ne avevano blindato l’azionariato con una golden share contro possibili scalate ostili e che avevano introdotto un limite individuale al possesso di azioni adottavano una decisione che smentiva clamorosamente il percorso da essi tracciato.”
Le conseguenze furono quelle che lo stesso Bernabè aveva più volte previsto, e cercato inutilmente di impedire: “un indebitamento da cui Telecom non si sarebbe più volte risollevata”.
Il libro ripercorre in tutti i dettagli, molti naturalmente inediti e che Bernabè rende per la prima volta pubblici, tutti gli aspetti e i personaggi della vicenda. E se fin qui l’ho citata per prima è solo perché, in qualche modo, appunto, ne sono stato partecipe, nella battaglia di Bernabè, del quale sono stato stato sodale e, anche, ammiratore. Aggiungo di restare tale anche dopo la lettura di questo libro dal quale emerge lo spessore dell’uomo, oltre che del manager. Un libro che è anche una autobiografia, nella quale non vengono sottaciuti i ricordi più intimi, le passioni, le paure, le emozioni che lo hanno accompagnato nella sua vita personale e nella sua carriera. Bernabé, infatti, parte dalle sue origini, dalla nascita a Vipiteno, in Alto Adige, da una modesta famiglia, padre ferroviere, poi trasferito, sempre per le Ferrovie dello Stato a Innsbruck dove egli visse fino all’età di 11 anni, frequentando le scuole austriache. “Mio padre però non accettava che io e mio fratello perdessimo le radici italiane. Se avessimo continuato a studiare a Innsbruck le nostre origini si sarebbero progressivamente indebolite fino a dissolversi, come era capitato ad altri amici di famiglia. Presentò pertanto domanda di trasferimento. E appena gli dissero che s’era liberato un posto da impiegato al controllo merci di Torino lo accettò senza pensarci troppo. Tutto avvenne all’improvviso”. Qui, Bernabè fece le migliori scuole della città, e l’uomo non lesina riconoscenza alla famiglia per avere, questa, affrontato non pochi sacrifici per offrirgli questa opportunità. Il caso poi volle che a sedici anni, nell’agosto del 1966, partisse per gli Stati Uniti, grazie a una borsa di studio dell’American Field Service, dopo aver partecipato alla selezione grazie a una informazione che gli aveva dato un compagno di liceo, la cui madre non voleva che il figlio se ne andasse lontano da casa per tanto tempo. La madre di Bernabé, lungimirante, ne fu invece entusiasta, tanto da incoraggiare il figlio a partecipare alla selezione, dove, pur zoppicando ancora in inglese, ma grazie alla conoscenza del francese e, naturalmente, del tedesco, la sua seconda lingua, si aggiudicò il premio. Fu un’esperienza straordinaria che gli aprì molti orizzonti, resi poi, una volta tornato in Italia, più ampi e colorati con il prosieguo degli studi fino all’università con professori di valore e compagni, molti dei quali, come lui, si sarebbero fatti valere nei campi e nelle professioni più diverse.
Le grandi capacità di Bernabè, anche se lui, nel libro non ne parla in questi termini, limitandosi al puro racconto dei fatti, lo avrebbero portato ben presto ai vertici della Fiat, quindi alla grande stagione dell’Eni, prima come assistente di Reviglio e poi, via via, fino ad assumere la guida dell’Ente, dopo la tragica esperienza di Cagliari, suicida in seguito alle indagini di Mani pulite. Guida che all’inizio, per Bernabè, doveva essere provvisoria, di un anno soltanto, ma che poi, tra difficoltà generate dalle interferenze politiche, sempre più in realtà partitiche, divenne di sei lunghi, terribili anni, che Bernabè racconta con grande sapienza, lucidità e rigore. Ne esce uno spaccato del Paese che vale mille analisi, mettendo il lettore a confronto con i guasti che la politica produce, soprattutto quando questa non si pone al servizio del Paese, come dovrebbe, ma degli interessi di partito. Lo sappiamo tutti, ma entrare nel merito di una testimonianza importante come quella di Bernabè, ci fa toccare con mano quanto tutto ciò incida sull’economia del paese e, quindi, della vita di ciascuno di noi, suscitando reazioni che sono spesso pasto di manipolazioni mediatiche, per cui si finisce per imboccare strade facili come quella del populismo da una parte o dello schematismo ideologico e del settarismo dall’altra, per dire delle due che vanno per la maggiore oggi. Viceversa, quel che emerge dal racconto di Franco Bernabè è una visione più ampia, ben sintetizzata nell’ultimo capitolo, un “Epilogo” intitolato “A proposito di Stato e mercato” che vale, si può dire, tutto il libro, per essere un saggio esemplare su quelle che dovrebbero essere le linee guida a cui si dovrebbe ispirare una politica seria, al servizio del Paese e non delle varie consorterie di partito. Riporto solo un brano che mi sembra significativo nelle sue premesse, in un momento in cui lo statalismo, con l’accaparramento dei posti direttivi in quota ai partiti di governo (vedasi il caso Alitalia, ma anche altre ipotesi di nazionalizzazioni), rischiano di avviare il nostro Paese verso una deriva venezuelana: “Nel privato l’assunzione del rischio è codificata da una serie di regole che ne definiscono con precisione premi e sanzioni. Per giustificare l’assunzione di rischio, coloro che forniscono i capitali pretendono che le decisioni imprenditoriali siano ragionevoli, che la loro realizzazione avvenga attraverso un processo coerente e che questo processo sia tracciabile. Lo sviluppo del sistema normativo che regola il comportamento e la governance delle imprese, soprattutto di quelle più grandi, ha precisato nel corso degli ultimi decenni, con sempre maggior rigore, questo insieme di regole. Nel pubblico, in un sistema democratico, il processo decisionale non garantisce la stessa efficacia. Gli obiettivi sono spesso il risultato di mediazioni tra esigenze diverse, a volte tra loro non compatibili. La pluralità dei soggetti che intervengono rende difficilmente tracciabili i processi e complicato risalire alle responsabilità. Spesso i gruppi di pressione contribuiscono a modificare il percorso o addirittura a deviarlo. Il caso più esemplare di queste distorsioni è stata la vicenda Enimont”.
Diego Zandel
Franco Bernabè, A conti fatti, Feltrinelli, pag. 353, €. 20,00