La premessa è doverosa anche se, forse, per qualcuno apparentemente noiosa.

Fu la rivoluzione di Gutenberg a mettere le basi della cultura giuridica del diritto d’autore.

Quando le opere d’arte, sia le letterarie sia anche le pittoriche, passarono dall’era delle copie uniche originali, magari ritrascritte da qualche paziente amanuense dei monasteri benedettini, ad un mondo nuovo in cui si poteva improvvisamente procedere alla stampa di repliche, apparentemente identiche, gli autori e gli artisti iniziarono a porsi il tema della tutela del loro talento.

Della possibile proteggibilità legale delle loro opere d’arte.

Da questa esigenza originata dalla scoperta della stampa, della possibilità cioè di ristampare degli originali in centinaia e centinaia di copie identiche, si sviluppò, prima nel mondo anglosassone e poi un po’ dovunque, un nuovo indirizzo di pensiero giuridico mirato ad individuare un istituto, codificato e condiviso, che, da un lato tutelasse l’autore in modo esclusivo nei confronti di eventuali imitatori non autorizzati e, dall’altro lato, disciplinasse i diritti patrimoniali connessi e conseguenti all’utilizzo dell’opera d’arte degna di tutela.

Da questo ragionamento, nacque il copyright e cioè il diritto d’autore, negli anni riconosciuto a livello mondiale da quasi tutti gli stati del Villaggio Globale.

In assenza di una tutela legale infatti chi si sarebbe ancora impegnato in lunghi studi e faticose applicazioni di opere dell’ingegno con il rischio poi di non vedersi protetto in caso di copiature più o meno evidenti? Di veder vanificato in un attimo tutto il lavoro svolto? Insomma, o si trovava una soluzione giuridica o si rischiava di mettere un freno allo sviluppo della creatività artistica in tutto il mondo.

Perché questa lunga premessa?

Perché un grande e apprezzato Street Art dei nostri giorni, protagonista assoluto del mondo dell’arte contemporanea (nonostante lo straordinario successo ottenuto, è riuscito a conservare fino ad oggi l’assoluto anonimato: si nasconde dietro uno pseudonimo Banksy e nessuno lo conosce e nessuno lo ha mai visto!) dopo aver gridato ai quattro venti, durante la sua prima fase della carriera, che il copyright “è una cosa da perdenti” (scrivendolo tra l’altro a lettere cubitali sulla sua opera) oggi pare aver cambiato opinione.

Ha saltato il fosso.

Diventando famoso non è più disposto a subire il rischio che altri traggano profitto dal suo lavoro e dal suo genio artistico.

Sto parlando dell’artista inglese Banksy, appunto, ormai un esempio dei più ricercati e pagati talenti dell’arte contemporanea del terzo millennio.

Maniaco della riservatezza assoluta, Banksy ha investito tutta la sua indubbia e talentuosa attività artistica da un lato creando il mistero su sé stesso e dall’altro sorprendendo ogni volta i suoi appassionati con installazioni od opere murarie sempre innovative, sempre “più avanti” rispetto allo stato dell’arte conosciuto.

In certi casi (per i non pochi detrattori, anche molto fortunati) anticipando la realtà come nell’ormai famoso quadro “Devolved Parliament” (del 2009) quando dipinse il parlamento inglese popolato da un veemente dibattito tra… scimpanzé.

Molti durante la stagione della Brexit, hanno collegato quell’opera di Banksy con lo spettacolo imbarazzante dei deputati di Westminster che si accapigliavano con modi poco educati sugli scranni del solenne tempio della democrazia inglese.

Il dipinto è stato venduto per la cifra record di 12 milioni di dollari americani.

Un’altra opera di Banksy che ha monopolizzato le prime pagine di tutti i quotidiani del mondo (non soltanto quelle dei giornali specializzati) è stata “Love is in the bin” (l’amore è nel cestino). Il dipinto che, una volta comprato, per 1.4 milioni di dollari americani, in una famosa asta di Sofethy nel 2018 si è autodistrutto, lasciando esterrefatti i presenti e alquanto imbarazzato e preoccupato l’acquirente.

Ma vi è di più: la tela sfilacciata, dopo il clamoroso momento dell’autodistruzione, è stata esposta per quasi un anno alla Staats Gallerie di Stoccarda, battendo ogni record di visitatori (180 mila contro una media di 90 mila) facendo felice l’acquirente e i responsabili dell’evento.

Questo è il fenomeno Banksy ma soprattutto questo è l’esempio di un grande artista venuto dal marciapiede della Street Art, che ha lanciato per anni strali contro le élite che, attraverso il copyright, volevano bloccare il processo di sviluppo delle arti; e che ora sembra aver cambiato decisamente approccio.

Divenuto famoso, ha iniziato a difendere il suo talento artistico, anche nei tribunali (in un caso recente, anche in Italia, al Tribunale di Milano, quando ha citato in giudizio gli autori di una mostra che utilizzavano, senza autorizzazione, sia le sue opere, sia gli oggetti del suo merchandising caratterizzato dal suo marchio di fabbrica, Banksy appunto).

Già, perché Banksy ha incaricato ufficialmente un’agenzia di marketing, tra l’altro da lui creata qualche anno fa, la Pest Control, di autenticare le sue opere e impedire che sul mercato nascessero dei falsi, proteggendo quindi il suo nome e le sue opere anche dal punto di vista legale.

I suoi legali, formalmente quelli della Pest Control, gli hanno consigliato di gestire direttamente il suo merchandising in modo tale da difendere in maniera più efficace i suoi marchi registrati per un’attività commerciale. La Pest Control ha fatto nascere, a tal fine, il Gross Domestic Product, un negozio on-line che vendeva prodotti marchiati Banksy. Durata dell’esperimento, pochi mesi, ma quelli necessari per dare contenuto concreto ai diritti di Banksy sul mercato.

I tribunali hanno incominciato quindi a consolidare una giurisprudenza che da un lato riconosceva la tutela legale del marchio e del merchandising del misterioso Banksy ma dall’altro metteva in dubbio la tutelabilità di certe opere tipiche della Street Art. Bisognava analizzare caso per caso se esse avessero effettivamente le caratteristiche di anteriorità e originalità richieste dalla disciplina sul copyright.

Insomma, Banksy è diventato uno dei protagonisti non solo del mercato dell’arte contemporanea, ma anche di nuove decisioni giudiziarie che hanno affrontato il tema della proteggibilità di opere come quelle dell’artista inglese, con giudizi alternanti e a volte anche contrastanti.

In ogni caso, molti, nel mondo, stanno cercando di imitarlo, di replicare, con opere apparentemente analoghe, i suoi successi, la sua indubbia capacità di curiosare tra la gente comune, cogliendo spunti dalla quotidianità per realizzare le sue opere sempre nuove, imprevedibili, originali e creative.

Banksy si è dunque reso conto della necessarietà di una protezione legale, valendosi nei tribunali di quell’istituto che aveva tanto contestato, deriso e addirittura considerato un “tappo” allo sviluppo dei talenti artistici.

Non posso dunque che dare il benvenuto al nuovo Banksy.

Dopo la fase rivoluzionaria, “imborghesitosi” come lo ha definito ironicamente qualcuno dei suoi detrattori.

Da appassionato della materia e convinto assertore dell’utilità della disciplina del diritto d’autore, non posso che compiacermi di questa apparente incoerenza di uno dei più grandi artisti viventi di questo secolo.

Una testimonianza sul valore fondamentale di un istituto che invece di rappresentare un tappo allo sviluppo delle arti intellettuali, ha sempre costituito e costituisce ancora uno stimolo, basato sulla correttezza e non sugli illeciti, per una continua innovazione artistica seria e professionale.

Nel dibattito aperto in molte parti del mondo sull’«open source», sulla cultura cioè aperta alla fruizione di tutti senza oneri economici, un esempio che ci può aiutare a comprendere meglio la delicatezza e l’importanza del copyright.

Riccardo Rossotto

Foto: Bruno Mameli/Shutterstock

Riccardo Rossotto

"Per chi non mi conoscesse, sono un "animale italiano", avvocato, ex giornalista, appassionato di storia e soprattutto curioso del mondo". Riccardo Rossotto è il presidente dell'Editrice L'Incontro srl

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