L’ennesimo decreto sulla concorrenza, il secondo del governo Meloni, al di là delle formalità di rito, non ha messo le mani “nel fango” di un Paese che non ama la concorrenza. La invoca, magari a parole, ma quando poi il governo, come nel caso dei balneari o dei taxisti, prova a disciplinare dei settori aprendo al mercato, succede il finimondo. Dal 2009 è stata approvata una norma che prevede che dietro l’impulso dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, il Parlamento debba approvare ogni anno una legge sulla concorrenza preparata dal governo, con lo scopo proprio di rimuovere le barriere normative che impediscono l’apertura dei mercati, tutelando in tal modo noi consumatori.
Avrebbe dovuto essere dunque una legge annuale, ma l’Italia l’ha fatta soltanto tre volte: la prima nel 2017 e poi finalmente dal 2022 si è adeguata alla scadenza annuale. Anche perché l’emanazione di tale legge era una delle condizioni essenziali per accedere ai finanziamenti europei del PNRR. Dunque, siamo diventati dei membri “diligenti” in materia di concorrenza, non per virtù ma per necessità. Non c’è, nel nostro Paese, una legge così osteggiata e invisa come quella sulla concorrenza: tutte le corporazioni, che nel nostro Paese sono tante, sono sempre state contrarie e ciascuna opera per limitare, vincolare, se possibile, rinviare le disposizioni della norma che cercano di aprire dei mercati che vogliono rimanere invece chiusi e protetti. Il risultato è ogni volta un testo “monco”, figlio di tanti emendamenti che ne hanno snaturato i razionali iniziali.
Alla fine, come ha scritto Ferruccio De Bortoli, rimane “un vestito concorrenziale lacerato del quale non si coglie alcuna rilevanza pratica. E non se ne apprezza neanche l’utilità marginale che pure esiste”. Un’occasione perduta di una legge che continua a non intervenire in settori “chiusi” come, ad esempio, le farmacie, le professioni, il trasporto pubblico locale, l’ambito del servizio postale, orari e promozioni nel commercio al dettaglio. Oltre naturalmente ai balneari.
Anche nella legge sulla concorrenza di quest’anno non si affronta tale spinoso problema e nei corridoi di Montecitorio si mormora che sia allo studio un decreto salva-infrazioni che in qualche modo eviti ai balneari inadempienti di dover pagare sanzioni e danni per aver ostacolato l’apertura del loro mercato. Insomma rischiamo di rivedere il film delle quote latte che costò al Paese milioni di euro in multe europee. Abbiamo più volte scritto su questa testata lo sviluppo di questa surreale vicenda che costituisce un caso unico in tutta Europa. Siamo tutti, o quasi tutti, entrati nel loop delle ferie agostiane e per chi va al mare il caro-spiaggia-ombrellone-sdraio è una realtà quotidiana.
Proprio in questi giorni è apparsa la notizia che in uno stabilimento balneare del Salento si arriva a pagare 1200 euro per due giorni in spiaggia! Il settore è completamente nel caos, con il rischio più volte minacciato di una chiusura degli stabilimenti a mò di serrata contro la caccia alle streghe che, secondo i nostri bagnini, è in corso da anni nei loro confronti. Il sindacato di categoria Sib-Fipe e la Fiba-Confesercenti hanno già proclamato la mobilitazione programmando uno sciopero di due ore nella giornata del prossimo 9 agosto su tutto il litorale nazionale se il governo non interverrà prima della pausa estiva per risolvere “con regole chiare e omogenee” l’annosa questione delle concessioni demaniali. Lo sciopero si ripeterà anche per quattro ore il 19 agosto e per 6 ore il 29 agosto se “dal governo non arriveranno segnali”.
Ma ricapitoliamo, in sintesi, l’annosa questione sulla quale richiamiamo tutti i contributi apparsi su L’Incontro. Nel 2006 è stata emanata dalla Commissione Europea la cosiddetta Direttiva Bolkestein per la liberalizzazione dei servizi. Nessun governo italiano da allora ha voluto o potuto attuare le prescrizioni europee nel settore delle concessioni balneari in quanto tutte le associazioni di categoria del settore si sono sempre opposte duramente alla messa a gara delle concessioni demaniali degli stabilimenti balneari.
È nato un infinito contenzioso con una valanga di sentenze, anche contraddittorie, di Tribunali Amministrativi, del Consiglio di Stato, della Corte Costituzionale e, soprattutto, della Corte di Giustizia europea che è stata chiamata in causa per dirimere una volta per tutte la spinosa questione. Il governo attuale ha tentato e sta tentando ogni tipo di espediente (il più bizzarro è stato quello di proporre il ricalcolo dei chilometri di spiagge balneabili includendo anche… Rocce a strapiombo, pur di dimostrare che in fondo i concessionari non occupavano troppi chilometri della costa italiana e che quindi non era necessario obbligarli a mettere in gara le loro concessioni) per rinviare ogni decisione. Ma siamo arrivati “alla frutta”: la scadenza delle concessioni, per legge, è stata individuata dal governo Draghi nel 31.12.2023. Entro tale data i comuni proprietari delle aree demaniali concesse ai balneari avrebbero dovuto indire le gare per aprire il mercato alla concorrenza. Come vedremo fra poco, qualche comune lo ha fatto ma molti sono rimasti “in silenzio”.
Il punto cruciale ha, tanto per cambiare, un contenuto economico: infatti nessuna norma del nostro ordinamento prevede che lo Stato debba corrispondere un compenso ai concessionari in scadenza per eventuali miglioramenti od opere stabili da loro costruite. Questo aspetto, ovviamente, ha scatenato le ire dei balneari che, più o meno in buona fede, ritengono di subire una grave penalizzazione nel momento in cui gli si fa cessare la durata della concessione senza indennizzo. La questione è stata portata, come dicevamo, davanti alla Corte di Giustizia europea del Lussemburgo: la domanda formulata ai giudici era proprio quella di pronunciarsi sul fatto che la mancata previsione di un indennizzo fosse illecita in quanto in violazione dell’art. 49 del Trattato europeo sulla libertà di stabilimento.
I giudici del Lussemburgo sono stati precisi nella decisione: il Trattato europeo non pone nessun ostacolo a una norma nazionale di uno stato membro che “alla scadenza di una concessione per l’occupazione di demanio pubblico, e salva diversa pattuizione (N.d.a: sottolineatura dell’autore), preveda che il concessionario sia tenuto a cedere immediatamente e gratuitamente e senza indennizzo, le opere non amovibili da esso realizzate”. La decisione della Corte di Giustizia è stata un duro colpo per il mondo dei balneari che ora premono perché il governo dia contenuto a quell’inciso della decisione della Corte in cui si precisa “salva diversa pattuizione”.
In altre parole, siamo portati a dire che se si fosse legiferato per tempo (e il governo Draghi cercò di farlo), prevedendo gare aperte, limiti di concentrazione per i partecipanti, rimborsi ai concessionari uscenti, oggi non ci troveremmo in questa situazione. Sono ormai 50 i comuni italiani che negli ultimi 3 mesi, dopo un richiamo scritto dell’Autorità Garante, si sono visti impugnare le delibere di proroga delle concessioni davanti ai Tribunali Amministrativi competenti territorialmente. Sono tutti comuni di mare, ovviamente, che hanno deciso di prorogare le concessioni dei balneari facendo lo slalom tra norme europee, leggi nazionali e sentenze europee.
Solo nell’ultimo bollettino dell’Autorità Garante di questo fine luglio sono ben 10 le segnalazioni relative ad altri comuni che hanno prorogato le concessioni demaniali esistenti senza indire gare. Ai rilievi dell’Autorità Garante e alla richiesta formale di non prorogare le concessioni, i comuni o hanno risposto in maniera insoddisfacente o hanno deciso di non rispondere, continuando nella condotta adottata. Un ultimo dato dovrebbe rinfrancarci, come consumatori. L’eventuale serrata dei bagnini, come quella minacciata dalle associazioni sindacali, non è un diritto costituzionalmente protetto come lo sciopero e ci sono ancora articoli del codice penale (502-505) che puniscono le serrate collettive politiche o per premere sulle pubbliche autorità.
Dunque, come ha scritto Alessandro De Nicola, se dovessimo trovarci di fronte a una serrata della nostra spiaggia, avremmo tutti i diritti per intentare una class action pretendendo il risarcimento dei danni per una condotta illecita della nostra parte contrattuale.
Riccardo Rossotto