Introduzione
Nel 1764 è pubblicato, in forma anonima, dall’editore di Livorno Marco Coltellini il Trattato Delli delitti e delle pene, scritto dal giurista e letterato milanese Cesare Beccaria (nonno materno di Alessandro Manzoni), ma che molti studiosi ritengono che sia stato scritto insieme all’illuminista milanese Pietro Verri o quantomeno ispirato da lui.
Il Trattato contro la tortura e la pena di morte ebbe una rapida diffusione in Europa e fu molto apprezzato negli ambienti Illuministi. In particolare, ha ispirato il Codice Penale russo emanato dall’Imperatrice Caterina II (detta Caterina la Grande), che è stata uno degli esponenti più importanti del cosiddetto Dispotismo illuminato e soprattutto il Codice penale del Granducato di Toscana, detto Codice Leopoldino, emanato il 30 novembre 1786 da Pietro Leopoldo di Lorena (Granduca dal 1765 al 1790 e poi Imperatore del Sacro Romano Impero dal 1790 al 1792), che ha abolito la pena di morte per la prima volta in uno Stato. Per ricordare questo importante fatto (la prima abolizione nel mondo della pena di morte), la Regione Toscana ha istituito, con la Legge regionale 21 giugno 2001 n. 21, la Festa della Regione che ricorre il 30 novembre, giorno della promulgazione del Codice Leopoldino.
Però, circa 180 anni prima di Cesare Beccaria, il giurista e letterato palermitano Argisto Giuffredi scrisse, intorno al 1580-1585, gli Avvertimenti cristiani (cioè Insegnamenti cristiani), rimasti inediti per tre secoli, con i quali dà una serie di consigli (o insegnamenti) ai tre figli maschi, avviati agli studi giuridici, invitandoli in particolare a non applicare la pena di morte e la tortura. Il manoscritto, conservato nella Biblioteca comunale di Palermo, fu scoperto dal Prof. Luigi Natoli, studioso di storia siciliana, e da lui pubblicato, con una ampia introduzione, nel 1896 a Palermo.
Chi era Argisto Giuffredi
Di Giuffredi abbiamo poche notizie certe. Non conosciamo la data di nascita (l’anno forse è il 1535), ma sappiamo la data della morte, avvenuta il 19 agosto 1593 in circostanze tragiche, insieme al figlio minore Argisto e ad altre persone, nella esplosione del Castellammare (Castello a mare), che era non solo la residenza del Viceré e la sede del Tribunale dell’Inquisizione (gestito dal 1513 non più dai Domenicani ma da inquisitori di nomina spagnola) ma anche un arsenale e la prigione usata sia dagli inquisitori che dalle autorità laiche. Non conosciamo però i motivi della carcerazione di Giuffredi e del figlio minore.
Sappiamo che la sua famiglia era di origini pisane. Il padre era un banchiere (diventato dirigente del Pubblico Banco di Palermo, fondato nel 1552), ma nel 1567 fu costretto (forse con l’accusa di aver sottratto fondi al Banco), a fuggire da Palermo, lasciando la famiglia in povertà. Argisto comunque si batté sempre per dimostrare l’integrità morale del padre.
Argisto riesce a completare gli studi giuridici e lavora dal 1559, per circa un decennio, gratuitamente, per il Vescovo di Patti Bartolomeo Sebastiano, che vive a Palermo, e che è un inquisitore molto crudele. Probabilmente, grazie a lui, nel 1561 diventa “notaro” e poi Reale Portulano.
Sappiamo che sposa una vedova, più grande di età di lui, che ha un figlio. Ha comunque varie avventure extraconiugali, alle quali accenna negli Avvertimenti, consigliando però i figli come comportarsi in questi casi.
Nel 1578 è segretario del Sacro Tribunale dell’Inquisizione. In questa veste ogni giorno deve ascoltare la messa, fare la comunione e restare fino a mezzogiorno nella cappella del Secreto.
Nel 1580 è imprigionato, non sappiamo per quale imputazione, e minacciato della applicazione della tortura, per evitare la quale chiede il parere di 14 giuristi (tra i quali il figlio Giovanni ed il famoso Ottavio Corsetto, che ha studiato alla Università di Bologna), i quali dichiarano tutti che è ingiusta l’applicazione della tortura nel suo caso. Alla fine, la tortura non gli viene inflitta per l’intervento del Viceré Marco Antonio Colonna, con il quale probabilmente Giuffredi è in buoni rapporti.
In merito alla sua attività letteraria, sappiamo che nel 1568 entra nell’Accademia degli Accesi (fondata da Paolo Caggio e chiusa nel 1573), che ha lo scopo di diffondere la cultura greca, latina e italiana, attraverso l’uso della lingua toscana (coltivata in precedenza dall’Accademia dei Solitari, fondata nel 1549 ed attiva per pochi anni, e dall’Accademia degli Irresoluti, di cui Argisto diventa uno dei dirigenti).
Nella Accademia degli Accesi ci sono anche donne (ricordiamo le tre sorelle Laura, Marta e Onofria Bonanno, appartenenti ad una nobile famiglia).
Contro la pena di morte e la tortura
Negli Avvertimenti cristiani, Giuffredi dà una serie di consigli (o insegnamenti) ai tre figli, alcuni dei quali ci lasciano molto sbigottiti e perplessi, come l’essere sempre ed in modo assoluto “servili” verso il potere (sia religioso che laico), cercando di farsi degli amici tra le Autorità, anche attraverso regali di valore, allo scopo di procacciarsi la loro amicizia che potrebbe essere utile in caso di bisogno (come in effetti lo fu l’amicizia con il viceré Marco Antonio Colonna per evitargli la tortura) .
In merito ai rapporti con la Chiesa e la religione, Giuffredi esalta i costumi cristiani, l’importanza della messa (da ascoltare ogni giorno ed in assoluto silenzio) e della preghiera (da fare ogni mattina e spesso durante la giornata) e la fiducia assoluta nelle affermazioni della Chiesa, fino al punto da denunciare per eresia anche i familiari.
Ricorda inoltre ai figli la sacralità del matrimonio e li consiglia a non sposarsi prima dei 30 anni (diversamente da come ha fatto lui). Li invita ad essere fedeli verso la moglie, ma poi spiega ad essi come commettere adulterio senza farsi scoprire (come certamente ha fatto lui), in particolare non scrivendo lettere all’amante, non andando mai nella casa di lei e non vantandosi mai in pubblico delle conquiste amorose.
Il consiglio però più interessante (anche perché è “rivoluzionario” per il suo tempo), rivolto ai figli, in particolare al figlio Giovanni, giurista come lui, è quello di non infliggere mai la pena di morte (a meno che vi siano costretti con la minaccia di gravi ritorsioni personali) e di non far mai torturare gli imputati (come ha rischiato di subire lui). Sostiene al riguardo che è “meglio tagliare le mani e cavare gli occhi piuttosto che dare la pena capitale”. In particolare, si rivolge al figlio Giovanni dicendo: “…a te Gio, che sei dottore…voglio ben dirti… che non condanniate mai nessuno a essere frustato; dategli altro castigo potendo…potendo per qualsivoglia cosa non date mai morte a nessuno… questa vita è di Dio, il la vorrei lasciar tor da lui, e non vorrei levarla io”. Pertanto, Giuffredi afferma con forza che solo Dio è il Signore della vita e della morte ed a questo sommo principio religioso devono uniformarsi le leggi civili.
Giorgio Giannini
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