Verrà lanciato domenica 9 maggio un importante appuntamento per il futuro dell’Unione Europea: una conferenza tra tutti gli stati membri per parlare della possibile riforma dei trattati. C’era molta attesa nella stagione politica pre-Covid, sulla duplice e consecutiva presidenza dell’Unione Europea, prima tedesca e poi francese. Da convinti europeisti, Angela Merkel e Emmanuel Macron avrebbero dovuto innescare un ambizioso progetto di revisione dei trattati che, da un lato, dimostrasse a tutti i cittadini europei di voler attivare sul serio quel programma di accelerazione della creazione di una Europa davvero unita e federata, valorizzando così al meglio il rischio di un “non ritorno” di quel populismo nazionalista che negli anni scorsi aveva fatto temere il tracollo di Bruxelles; dall’altro, rendesse la governance dell’Unione Europea più efficiente e razionale nella gestione dei processi decisionali.
Purtroppo la tragedia pandemica ha sospeso questo auspicato salto di qualità dei paesi fondatori dell’Europa unita: la bolla causata dal Covid ha momentaneamente, ci auguriamo, rinviato l’agenda dei lavori di questo ambizioso ma necessario progetto. Proprio il prossimo weekend verrà lanciata, sotto la presidenza congiunta di Parlamento, Commissione e Consiglio, una conferenza tra gli stati membri sul futuro dell’Europa.
Il dibattito verterà sulle questioni più spinose relative all’attuale Unione e auspicabilmente dovrà dare segnali di accelerazione sulle riforme già da molti ipotizzate e discusse. Ci permettiamo di evidenziare tre temi che dovrebbero avere la priorità nel dibattito e nelle deliberazioni operative in modo tale da rilanciare sul serio un percorso basato non sulle promesse, ma sulle condotte pragmatiche della maggioranza dei membri dell’attuale Unione Europea.
Lo scopo della Conferenza
L’obiettivo dei lavori, si legge nel comunicato congiunto delle tre istituzioni europee che hanno presentato l’iniziativa, è quello di “dar voce ai cittadini europei” che potranno inviare a Bruxelles opinioni, desideri, suggerimenti su come vorrebbero veder progredire (o regredire) il progetto comunitario. La speranza è che non si tratti di una riunione politica basata soltanto su dichiarazioni retoriche e ridondanti. I risultati della Conferenza dovranno costituire la piattaforma per riavviare una vera riforma del funzionamento dell’Unione Europea che potrebbe anche contemplare la riforma di alcuni articoli dei trattati.
Gli schieramenti in campo
Oggi in Europa esistono, nella sostanza, tra i paesi membri, tre schieramenti: nel primo ci sono gli europeisti veri e convinti, favorevoli sul serio ad una maggiore integrazione dell’Unione Europea. Ci riferiamo all’Italia, alla Germania, alla Francia, alla Spagna, al Belgio, al Lussemburgo, al Portogallo e alla Grecia. Dall’altra parte sono schierati i governi sovranisti, della destra anti europea, come Polonia ed Ungheria, che vogliono limitare o addirittura ridurre i poteri che l’Unione Europea oggi possiede. Infine c’è il terzo schieramento, quello formato dai sostenitori dello “status quo” che stanno ottimizzando al massimo questo tipo di Europa, con questa governance e con tutti i suoi “lacci e lacciuoli”. Sono tutti stati che non sono assolutamente disposti a sacrificare sovranità per devolverla a Bruxelles. Chi sono? Austria, Repubblica Cechia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Islanda, Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Slovacchia, Svezia.
Come potete notare, i paesi di dimensione medio-piccola che, in una Europa che marcia sulla base del principio dell’unanimità, valorizzano al massimo il loro diritto di veto. Sono stati i primi, infatti, una volta lanciata l’idea della conferenza sul futuro del nostro continente, a voler precisare per iscritto che tale riunione “non deve creare obblighi legali né interferire indebitamente con il processo legislativo”.
In altre parole, “parliamo pure di tutto ma toglietevi dalla testa di convincerci a riformare i trattati!”.
Prima questione: il diritto di veto
Ed è proprio quella unanimità che oggi possiamo dire abbia costituito un rischio di disintegrazione del progetto europeo, che costituisce, a nostro avviso, la priorità numero uno di riforma dei trattati.
La posizione dei 12 paesi medio-piccoli dimostra in modo lampante come, ormai, per poter immaginare il raggiungimento del sogno scritto nel Manifesto di Ventotene, bisogna passare ad un regime diverso, dall’unanimità alla maggioranza, magari consolidata, con quorum più alti del 51%, per le materie più rilevanti.
Per molti governi europeisti questo è ormai considerato un passaggio inevitabile.
Di contro, cancellare il diritto di veto, significa, da una parte, limitare ulteriormente le sovranità nazionali (avendo sicuramente contro Ungheria e Polonia) e, dall’altra parte, ridurre l’attuale strapotere ingiustificato dei paesi di medio-piccola dimensione, che hanno tenuto in ostaggio tutta la UE nell’ultimo ventennio.
Una questione spinosa ma non più rinviabile anche a costo di perdere per strada qualche paese membro.
Seconda questione: le tre presidenze
Lo sgarbo di Erdogan a Ursula von der Leyen associato alla fastidiosa insipienza del presidente del Consiglio europeo Charles Michel, ha evidenziato un problema di governance, non banale, all’interno dell’Unione Europea.
I trattati prevedono infatti tre massime cariche delle istituzioni europee: il presidente del Consiglio europeo, una specie di presidente della Repubblica; il presidente della Commissione europea, paragonabile ad un presidente del Consiglio; il presidente del Parlamento europeo, equiparabile ad un presidente del Senato.
Anche se, come abbiamo letto dopo le polemiche originate dallo sgarbo voluto da Erdogan, il protocollo di Bruxelles sottolinei che la carica più importante sia quella di presidente del Parlamento a cui poi succedono il presidente del Consiglio e quindi la presidente della Commissione, le tre massime istituzioni hanno uno status sostanzialmente equiparabile: rappresentano quindi un animale a tre teste che serve ad equilibrare i poteri dei governi nazionali (presidente del Consiglio), delle forze politiche (presidente del Parlamento), dei poteri dell’esecutivo “federale” (presidente della Commissione).
Come ha notato acutamente Andrea Bonanni su La Repubblica, “la competizione tra i vertici è stata esacerbata dalla decisione di lottizzarli politicamente: così la von der Leyen rappresenta il partito popolare, Charles Michel i liberali e Sassoli i socialisti. Con simili premesse è ovvio che, dietro un velo di cortesia diplomatica, le tre poltrone siano strutturalmente in concorrenza tra loro”.
Per questo motivo, al di là delle responsabilità dolose di Erdogan, ogni qualvolta Bruxelles debba incontrare un interlocutore esterno, offre alla controparte un facile gioco nello sfruttare le linee di divisione insite in questa peculiare e non virtuosa “Troika”.
L’Unione Europea deve porre fine a questa situazione, rivendicando di avere un unico volto che la rappresenti nel mondo. Anche questa questione dovrebbe riguardare una riforma dei Trattati.
Terza questione: il sogno hamiltoniano sta svanendo?
Dopo l’entusiasmo per il Recovery Plan oggi assistiamo ad una situazione diversa, più complessa, meno positiva. In Germania, la Corte Costituzionale ha sbloccato, come abbiamo scritto nei giorni scorsi, la sottoscrizione da parte del Presidente della Repubblica tedesca, della norma di approvazione del piano europeo, ma ha posto tutta una serie di “paletti”, rinviando la decisione definitiva ai prossimi mesi.
Nella sostanza, i giudici di Karlsruhe hanno ribadito che la “socializzazione del debito” posta alla base del Recovery Plan, deve rappresentare un “una tantum” non replicabile. In caso contrario si violerebbe la costituzione tedesca. La Carta Costituzionale vieta infatti quello che in gergo si definisce “transfer union” e cioè la possibilità che la Germania condivida debiti altrui.
Ma non basta. Anche il processo di ratifica in Polonia è tutt’altro che in discesa. Il governo Morawiecki non ha più la maggioranza e il partito di ultradestra ha già dichiarato che non voterà il Recovery Plan e cioè uno strumento basato sulla “europeizzazione del debito”. La situazione paradossale è che Varsavia sia proprio tra i maggiori beneficiari del fondo europeo con quasi 60 miliardi di programmate erogazioni. Maggioranza e opposizione si stanno confrontando su questo punto, ma per ora senza alcun risultato positivo, talché non è neanche prevista la calendarizzazione della votazione della legge in Parlamento.
Anche in Ungheria non è stata fissata ancora la data per il voto. Orban tergiversa, negoziando con Bruxelles ulteriori benefici derivantigli dall’importanza del suo voto ai fini della richiesta unanimità di cui abbiamo parlato prima. Alla Polonia e all’Ungheria si aggiungono anche l’Austria e la Romania che sono ancora indietro nel processo di ratifica della norma. A Vienna la votazione è già stata rinviata tre volte per non andare in minoranza: la prossima tappa è fissata a metà maggio. A Bucarest, il governo di centrodestra guidato dal premier Citu non è in grado di garantire un risultato positivo. Votazione rinviata a data da destinarsi e cioè a quando sarà possibile contare su almeno i 2/3 del Parlamento che sono il quorum previsto per l’adesione a trattati internazionali.
Insomma, il sogno di ripetere il laboratorio di Hamilton, padre della patria americano, se non sta svanendo, sta comunque incontrando rilevanti difficoltà. I progetti di Macron e di Draghi (la Merkel dal prossimo settembre “appenderà le scarpette al chiodo” e si ritirerà dalla politica) di programmare, disciplinandoli in modo adeguato, gli eurobond come strumento di coesione ed espansione europea, rischiano di rimanere, per ora, sulla carta.
Riccardo Rossotto