Nel mese dedicato alla cultura finanziaria e nell’ambito del progetto “In viaggio con la Banca d’Italia ” si è svolto a Torino il convegno dedicato all’ascolto del “polso dell’economia italiana” , con l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini sui concetti elementari dell’economia e della finanza e, soprattutto, di evidenziare la connessione tra le istituzioni e la cultura economica e finanziaria di base, ormai indispensabile per tutti e tuttavia carente nel nostro Paese.
Il lascito del “miracolo economico” degli anni 1950/60
Di particolare interesse, per la fotografia del “polso” dell’economia nel nostro Paese, è stata la relazione di Francesca Lotti – economista in staff al Servizio di struttura economica della Banca d’Italia – sui nodi strutturali della nostra organizzazione produttiva e del suo impatto sull’economia reale. Per sintetizzare è necessario un breve flash sul passato per comprendere meglio il presente. Il periodo 1950/60 ha visto in Italia il cosiddetto “miracolo economico” con la nascita delle grandi imprese e con la contestuale trasformazione della società da agricola ad industriale, prima dell’arrivo di segnali di indebolimento della grande impresa negli anni 1970/80 laddove si è delineato il passaggio verso la piccola impresa (il cosiddetto periodo del “piccolo è bello”).
Il ” forte maestrale” degli anni 1990/2007
Per poi arrivare al “vento contrario” degli anni 1990/2007 caratterizzati dalla globalizzazione (entrano in gioco nei mercati la Cina e gli altri Paesi anche europei caratterizzati da un costo del lavoro meno elevato), dall’introduzione dell’Euro (che ha fatto venir meno in Europa la leva della convenienza legata al cambio) e, soprattutto, dall’introduzione nel mercato di nuove tecnologie. Nel 2008/2012 si è assistito alla doppia recessione che ha lasciato cicatrici ma che ha portato ad una ripresa nel periodo 2013/2020, quando sono sparite dal mercato molte piccole imprese ma dove altre si sono accresciute come dimensione.
4,3 milioni di PMI con capitale umano insufficiente
Dopo tale premessa si possono enucleare alcuni principali nodi strutturali attuali della nostra economia, essenzialmente riconducibili, secondo la ricerca effettuata dalla Banca d’Italia, alle piccole dimensioni delle imprese, al capitale umano, all’ innovazione ed infine alla burocrazia. Qualche dato può essere significativo per comprendere le problematiche. In Italia vi sono 4,3 milioni di piccole imprese (sino a 9 dipendenti) che rappresentano il 27% del valore aggiunto, mentre sono soltanto 4.000 le grandi imprese (superiori a 250 addetti) che rappresentano il 35% del valore aggiunto. Tale frammentazione e polarizzazione del tessuto produttivo italiano ha un feed back negativo sull’altro nodo strutturale costituito dal capitale umano, che presenta carenze qualitative e quantitative. Le PMI non sono incentivate ad investire nella formazione del personale, anche se poi, quando hanno bisogno di personale qualificato hanno difficoltà a reperirlo sul mercato (non si dimentichi che in Italia vi è un basso indice di ritorno dell’istruzione nel mondo del lavoro).
Scarsi investimenti – solo l’1,50% del PIL – in ricerca & sviluppo
Altro feed back negativo è in punto innovazione. In Italia si investe solo l’ 1,50% del PIL in ricerca e sviluppo, contro il 3% della Germania e oltre il 5% del Giappone. Il quarto nodo strutturale individuato dalla Banca d’Italia è la burocrazia. Pur essendo molto difficile quantificare la percentuale di oneri riconducibili alla burocrazia, la ricerca ha individuato tale misura nella percentuale del 3%, con la precisazione che con essa non si intende quantificare solo la spesa in denaro ma anche quella in termini di tempo da dedicare alle incombenze burocratiche. In ogni caso, deve far riflettere il dato che la percentuale del 3% riferita alla burocrazia rappresenta il doppio della percentuale dedicata alla ricerca e sviluppo del 1,5%!
Quali sono le nuove sfide che dovrà affrontare la nostra economia dopo lo shock della pandemia, della guerra e della crisi energetica?
Certamente la transizione verde, la transizione digitale e, in particolare, la riorganizzazione del sistema economico. In merito a tale ultimo punto il professor Davide Vannoni dell’Università di Torino – Dipartimento di Scienze economico-sociali e matematico- statistiche, ha illustrato interessanti dati emersi da ricerche accademiche. In primis vi è la sfida della globalizzazione e della cosiddetta “catena di valore globale “ che illustra come è variata la produzione di valore intorno alle imprese. Nella bicicletta elettrica canadese “Pedego”, prodotta in Vietnam, la Germania partecipa con il motore, l’Italia con il sellino, il Giappone per gli ingranaggi, Taiwan per la batteria e la Cina per i telai, mentre per gli assemblaggi si è ora più diretti verso l’India. Se poi si osservano due importanti e famose imprese italiane, emergono dati significativi. La Ferrero di Alba ha sede in Italia, fabbriche in Nord e Sud America, in Australia ed in Russia mentre i fornitori sono localizzati in Turchia ( per le nocciole) in Malesia (per l’olio di palma), in Brasile ( per lo zucchero) e in Nigeria (per il cacao). Anche la Geox, con sede in Italia, utilizza il pellame del Nord Europa, la tecnologia degli Usa e ha lavorazioni nell’Europa dell’est (Croazia e Slovenia).
Cosa significa tutto ciò?
Che queste aziende italiane di successo sono organizzate secondo il principio della catena globale di valore, per cui si può affermare che per le imprese è cruciale inserirsi nelle filiere internazionali di produzione. Molti studi hanno dimostrato, in maniera inequivocabile, che le fasi a monte (ricerca, logistica, disegno) e a valle (distribuzione, vendita e servizi) del ciclo produttivo sono quelle a maggior valore aggiunto, rispetto a quello della produzione vera e propria. Dati statistici hanno rilevato che le imprese multinazionali e “global “ (che esportano in almeno 5 aeree extra- UE) hanno una produttività del lavoro decisamente maggiore – anche triplicata – rispetto a quelle che non partecipano alle catene di valore globale, essendo solo imprese importatrici o esportatrici. Si rende necessario, però, precisare che la tendenza degli ultimi anni è quella di un ripensamento dell’economia globale, andando a delinearsi il fenomeno di rallentamento della globalizzazione: si assiste, come tendenza recente, alla “rilocalizzazione”, in particolare di forniture.
Quale sarà l’ultima sfida della nostra economia, dopo il ridimensionamento della globalizzazione talvolta selvaggia?
Precisamente, piuttosto che al ritorno al Paese di origine, si assiste al fenomeno dell’avvicinamento al Paese di origine , con una regionalizzazione – non solo geografica ma anche culturale – degli scambi che comporta una riduzione della globalizzazione più accentuata (in particolare nel settore agro- alimentare e delle costruzioni, mentre il settore tessile e della salute permane la maggiore globalizzazione). Per concludere, quale sarà l’ultima sfida della nostra economia, dopo il ridimensionamento della globalizzazione talvolta selvaggia? Gli economisti ravvisano quest’ultima sfida nella resilienza. Con questo termine molto di moda oggi, si va a suggerire che anche l’economia, come la persona, deve essere in grado di essere resiliente, ossia di reagire positivamente e non soltanto subire gli shocks della guerra, delle pandemie e delle crisi energetiche. In particolare, se l’impresa è inserita nella catena di valore globale – come lo sono le maggiori imprese di successo – deve evitare gli eventuali effetti negativi dell’interruzione della catena , tramite una maggiore resilienza nei confronti delle avversità.
Liliana Perrone