Sono nato a Chivasso, dall’altra parte del Canavese: il lato della Lancia. Ai suoi antipodi, a molto più di quaranta chilometri di distanza, a Ivrea esisteva l’Olivetti. Erano due mondi a confronto che avevano volti e storie di zii che facevano i turni in verniciatura o tappezzeria, mentre il papà del mio compagno di banco Massimiliano o zio Pierangelo lavoravano già alle calcolatrici e ai loro omologhi, maschili plurali: i calcolatori. Il sogno possibile di Adriano Olivetti che affondava le radici nel sogno di Camillo, aveva forme, nomi e indirizzi. Era la rappresentazione plastica di un’eccellenza pensata e realizzata, con l’ambizione e il sogno che portava la Silicon Valley a due passi da casa. Un film che aveva dei protagonisti noti, una storia dal brillante inizio e un triste finale.
Un progetto che oggi, L’Incontro può celebrare perché perfettamente in linea con i suoi (stessi) principi ispiratori.
Tutto questo, tempo dopo, è stato riassunto più o meno così: Questo film lo dedichiamo ai folli. Agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso. Costoro non amano le regole, specie i regolamenti e non hanno alcun rispetto per lo status quo. Potete citarli, essere in disaccordo con loro; potete glorificarli o denigrarli ma l’unica cosa che non potrete mai fare è ignorarli, perché riescono a cambiare le cose, perché fanno progredire l’umanità. E mentre qualcuno potrebbe definirli folli noi ne vediamo il genio; perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo lo cambiano davvero.
Alessandro Cappai
“La fabbrica non può guardare solo all’indice dei profitti. Deve distribuire ricchezza, cultura, servizi, democrazia. Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica.(…) Il lavoro dovrebbe essere una grande gioia ed è ancora per molti tormento, tormento di non averlo, tormento di fare un lavoro che non serva, non giovi a un nobile scopo.(…) Io voglio che la mia azienda non sia solo una fabbrica, ma un modello, uno stile di vita. Voglio che produca libertà e bellezza perché saranno loro, libertà e bellezza, a dirci come essere felici” .
Queste frasi non sono tratte da un Ted di Simon Sinek, Guru inglese del brand purpose che macina milioni di visualizzazioni ogni volta che apre bocca, né dall’ultimo articolo di Michael Porter sulla Harvard Business Review.
Sono riflessioni di un italiano, Adriano Olivetti (Ivrea, 11 aprile 1901; Aigle, 27 febbraio 1960) scritte negli anni 50 (avete letto bene: anni ’50).
Ingegnere del Politecnico di Torino, Adriano prende in mano l’azienda paterna già nel 1932, ma affianca al suo lavoro di imprenditore una passione entusiasta per le dottrine umanistiche: architettura, letteratura, sociologia, filosofia.
Diventa amico di Piero Gobetti, Leone Ginzburg, Carlo Rosselli, tutti poi uccisi dai fascisti, con i quali ebbe un rapporto articolato e difficile che lo portò a frequentare da attivista l’ambiente antifascista piemontese ma contemporaneamente a collaborare col Governo di Mussolini sul fronte dell’urbanistica e dell’architettura (gli ambiti nei quali il Ventennio espresse i suoi migliori risultati di pianificazione sociale).
Poi le leggi razziali, l’alleanza con Hitler. E le relazioni con lo Stato fascista si deteriorano completamente: Adriano Olivetti si rifugia in Svizzera fino alla fine della guerra.
Descrivo questo scorcio della sua vita politica per sottolineare una sua caratteristica, fra le sue più importanti: quell’uomo era laico, totalmente privo di preconcetti e pregiudizi, con una mente curiosa e apertain grado di accogliere tutte le sollecitazioni che sembravano interessanti. Cosi, liberale e antifascista, riesce ad apprezzare del fascismo quella sua capacità di pianificazione sociale che si manifesta soprattutto in ambito urbanistico, e che portò risultati ancora oggi studiati da architetti e urbanisti di tutto il mondo. E’ la chiave del suo successo di imprenditore: non esistono regole, anzi, “l’unica regola è che non ci sono regole”, come recita, 70 anni dopo, il mantra che ha sancito il successo planetario di Netflix. Che è un modo come un altro per parlare di innovazione.
Non ci sono regole, ma ci sono valori, e su questi Adriano Olivetti non scherzava.
Quel giovane “uomo pingue, che mentre parlava a voce bassissima fissava il vuoto con i piccoli occhi celesti, che erano insieme freddi e sognanti” (Natalia Ginzuburg) credeva, come un adolescente idealista “nei valori spirituali, nei valori della scienza, nei valori dell’arte, nei valori della cultura”, credeva che “gli ideali di giustizia non possano essere estraniati dalle contese ancora ineliminate tra capitale e lavoro”. Credeva “soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina, nella sua possibilità di elevazione e di riscatto.”
Con questi valori Adriano ha costruito un impero economico: quando morì, nel 1960, l’azienda che aveva preso in gestione dal padre con 60 dipendenti faceva lavorare 24.000 persone.
La piccola, prima fabbrica italiana di macchine da scrivere diventa un Davide che spacca le ossa ai Golia delle grandi multinazionali americane, sfornando prodotti leggendari che conquistano i mercati internazionali: Divisumma 14 (1945) , la prima calcolatrice scrivente al mondo in grado di eseguire le 4 operazioni; Lettera 22 (1954), una macchina più famosa dei premi Nobel che l’hanno usata per scrivere i loro capolavori e considerata il miglior prodotto di design industriale del secolo (il giudizio è dell’Illinois Institute of Technology, non di mio cugino); l’Elea 9003 (1959), uno dei primi mainframe computer transistorizzati, praticamente il primo personal computer al mondo.
Potrei continuare per altre 10 pagine, ma penso di aver reso l’idea.
Con le sue idee su un nuovo umanesimo industriale, capace di pensare la fabbrica in funzione dell’uomo e non l’uomo in funzione della fabbrica, di riflettere concretamente sulla responsabilità che un’azienda ha all’interno del tessuto sociale in cui è radicata, convinto della forza generatrice dell’Arte e della Bellezza, quell’uomo ha costruito un impero. Perché ha avuto il coraggio e la tenacia di trasformare quei valori in azioni, dimostrando di aver ragione come Uomo, e come Imprenditore.
Qualche esempio:
Se la tecnica è al servizio dell’Uomo e non viceversa allora, anche in un’azienda squisitamente meccanica, vanno assunti insieme ad ingegneri anche umanisti. Questa idea, che sembra una boutade da cena di lavoro all’ammazzacaffè , Adriano Olivetti la trasforma in una regola operativa: il “principio della terna”, secondo cui per ogni nuovo assunto in campo “tecnico” devono venire assunti anche un dipendente con formazione economico-legale ed uno proveniente da studi umanistici.
E cosi in Olivetti vanno a lavorare alcuni fra i nomi più illustri dell’intellighenzia del secondo dopoguerra italiano: Giovanni Giudici, Franco Fortini , Giorgio Soavi (che sposerà sua figlia), Geno Pampaloni, Paolo Volponi, uno degli scrittori più importanti del ‘900 italiano, “direttore dei Servizi sociali (…ehi , Olivetti aveva pensato anche al welfare aziendale, con 60 anni di anticipo? Si!)
Studia le catene di montaggio americane, e del taylorismo apprezza l’efficienza dove “tutto marcia senza burocrazia: l’unica contabilità di officina è il calcolo dei pezzi che un reparto produce a ogni turno, con enorme specializzazione operativa, e non si perde tempo”. E’ entusiasta di quell’efficienza, ma non ne fa una religione (L’unica regola è che non ci sono regole…ricordate?) perché intuisce che quella frammentazione del gesto produttivo riduce l’uomo in una macchina ottusa. E comincia a sperimentare nuovi modelli di organizzazione del lavoro in cui agli operai vengono variate e aumentate le mansioni e assegnati compiti maggiormente qualificati.
Sono i semi della nuova organizzazione che l’Azienda si darà vent’anni dopo, negli anni settanta, le cosiddette UMI, Unità di Montaggio Integrate (modello organizzativo copiato negli anni 90 dalla Wolkswagen, con le sue “isole produttive”).
Nel 1956, in un periodo di successo esplosivo della sua azienda, e con gli stabilimenti produttivi saturi, Adriano decide di diminuire l’orario di lavoro dalle 48 alle 45 ore settimanali, e introduce in azienda il riposo prefestivo: in una parola, a inventare in Italia il week end è stato l’uomo di cui stiamo parlando.
Crea una biblioteca aziendale, aperta anche durante l’orario di produzione, che con i suoi 150.000 volumi e 800 abbonamenti diventa una fra le più importanti biblioteche del Piemonte (aperta, naturalmente, a tutta la popolazione di ivrea).
Sul fronte sanitario Olivetti anticipa di molti anni le decisioni della politica: vaccina contro la poliomelite , dal 1957, tutti i figli dei dipendenti.
In una Italia che aveva ancora nel codice penale il delitto d’onore (in breve: se uccidi tua moglie non è poi una tragedia), costituisce la ALO (Assistenza Lavoratrici Olivetti) per sostenere le donne e consentir loro di seguire la missione materna senza perdere opportunità nel lavoro: nove mesi e mezzo di aspettativa per la gravidanza, con l’80% di salario garantito (allora la legge del lavoro italiano prevedeva il diritto a 4 mesi di aspettativa…); asili in fabbrica ma anche finanziamenti a fondo perduto per la costruzione di asili pubblici in Città.
Nell’azienda di Ivrea l’imprenditore impone una relazione tra gli stipendi degli operai semplici e quelli dei manager più importanti. Difficilmente un top manager avrebbe guadagnato più di venti volte rispetto a un operaio appena assunto.
Da ultimo (nel senso che non ho più spazio in questo articolo, non che non ci siano altre cose da raccontare), Olivetti decide di non limitarsi a citare la frase di Fëdor Dostoevskij secondo cui “La bellezza salverà il mondo”, ma riempie di manciate di Bellezza, di grande, vera Bellezza i suoi negozi, le sue strutture produttive, i corridoi dei suoi uffici: Scarpa disegna il negozio di Venezia; Guttuso, De Chirico, Carrà, Morandi, Kandinskij, Klee sono appesi nei corridoi degli uffici amministrativi; Egor Eiermann, James Stirling, , Gae Aulenti, Kenzo Tange sono chiamati a disegnare ogni nuovo stabilimento.
“Il termine utopia è la maniera più comoda per liquidare quello che non si ha voglia, capacità, o coraggio di fare. Un sogno sembra un sogno fino a quando non si comincia da qualche parte, solo allora diventa un proposito, cioè qualcosa di infinitamente più grande”. Adriano Olivetti ha scritto queste parole nel 1952. E ha dimostrato di aver ragione.
La carrellata incompleta e disordinata dell’opera del più visionario Imprenditore italiano (mitizzato, ma di fatto dimenticato), che più di mezzo secolo fa non parlava di Impresa sociale, ma semplicemente la realizzava, vuole essere un modesto invito a riscoprire il suo pensiero, in un momento in cui si parla molto di Purpose, Corporate Social Responsability, impresa sociale.
Consiglio due libri: “Le Fabbriche di bene” e “Ai lavoratori” (edizioni della Comunità). Si leggono in tre orette, e se li comprate tutti e due pagate 11 euro e 40 centesimi. Decisamente ben spesi.
Ercole Giammarco