Chuck Palahniuk ha romanticamente scritto che “ogni generazione vorrebbe essere l’ultima”.
In un quadro globale composto da guerre, pandemia e disastro ambientale, questa frase assume i connotati di una battuta di cattivo gusto.
Ogni guerra, oltre che un dramma umanitario, è anche un disastro ecologico. L’Ucraina non è che l’ultimo tragico esempio. Nonostante ciò, una riflessione strutturata in questo senso non appare sull’agenda politica globale, in cui l’impatto ambientale dei conflitti bellici viene a malapena menzionato. Mentre da un lato le politiche europee si ammantano di discorsi ecologisti, dall’altro la retorica guerrafondaia sembra essere l’unico orizzonte del pensabile da due anni a questa parte. Sulle prime pagine dei quotidiani, la “guerra al Covid” ha ceduto il posto alla “guerra in Ucraina” e all’aumento delle spese militari.
L’impatto ambientale della guerra
In Ucraina sta avvenendo un ecocidio le cui conseguenze impatteranno pesantemente sulla popolazione negli anni a venire. Gli scienziati ucraini hanno affermato che siamo di fronte a una catastrofe ecologica potenzialmente più pericolosa di Chernobyl. Depositi di rifiuti radioattivi e stabilimenti industriali e militari sono finiti sotto il fuoco delle armi, incrementando drammaticamente l’inquinamento idrico e atmosferico di zone già ad alto rischio di disastro ambientale.
Le conseguenze ecologiche della guerra, però, non si esauriscono con ciò che succede durante un conflitto. Nonostante l’ostracismo di un settore storicamente refrattario alla trasparenza, alcune stime evidenziano che le forze armate e l’industria bellica sarebbero responsabili del 5% delle emissioni globali di carbonio. Basti pensare che il Pentagono è uno dei maggiori contributori alle emissioni di gas serra del mondo. Se fosse un paese, sarebbe al 55° posto, sopra a paesi industrializzati come il Portogallo e la Svezia.
La percentuale di emissioni globali del comparto bellico è circa la stessa di quella prodotta dall’uso domestico e commerciale di combustibili fossili (gas naturale, carbone, petrolio).
Il parallelo fa sorridere considerato che la crisi energetica causata dalla guerra, tradotta nel rincaro delle bollette, affanna il dibattito pubblico di questi giorni. La Russia è infatti una delle maggiori fornitrici di petrolio e gas dell’Europa. È amaramente ironico che le soluzioni politiche per uscire da questo scacco continuino a concentrarsi sull’approvvigionamento di quegli stessi combustibili fossili che non solo ci rendono fortemente dipendenti da altri paesi, ma che al contempo dovrebbero essere dismessi il prima possibile secondo l’Agenda 2030 dell’ONU.
L’Europa tra pace, ecologia e riarmo
Il conflitto in corso ha il triste pregio di evidenziare le contraddizioni di un’Europa che si spende in dichiarazioni per la pace e il rispetto dell’ambiente mentre aumenta drasticamente le spese militari. I governi europei sembrano aver frenato sulle misure per affrontare la crisi climatica a favore di una corsa al riarmo per la difesa e per la sicurezza degli approvvigionamenti energetici. L’Ue continua a importare gas, petrolio e carbone russi e intanto cerca nuovi fornitori corteggiando Azerbaigian e Arabia Saudita. Un processo che “non porterà pace né sicurezza” secondo Jorgo Riss, direttore di Greenpeace Europa.
Di pari passo, i governi europei stanno drasticamente aumentando le spese militari senza interrogarsi sui risvolti tragici per l’ambiente. La sicurezza, in questo momento, sembra essere la priorità, ma è importante sottolineare che uno studio del Parlamento Europeo aveva già evidenziato l’inefficienza della soluzione militare a garanzia della difesa. Basti pensare che a fronte di un aumento del 9,3% della spesa militare mondiale negli ultimi dieci anni, il tasso di conflittualità è salito del 6,5% e quello di sicurezza è sceso del 2,5%, come denuncia Greenpeace. Nonostante ciò, molti paesi Ue hanno reagito alla guerra in Ucraina portando il budget militare al 2% del Pil. Tra questi c’è anche l’Italia, la cui spesa militare, secondo l’Osservatorio Milex, passerà a 104 milioni di euro al giorno, quasi il doppio di prima (68 milioni al giorno).
L’assenza di voci critiche mette in grave crisi l’ambiente
In questo contesto la scelta inedita di inviare armi all’Ucraina non dovrebbe sorprendere.
Ciò che lascia più perplessità è la mancanza di voci critiche all’interno del panorama partitico e istituzionale. Anche se i segni di questa assuefazione generale alla retorica guerrafondaia erano già evidenti durante la pandemia, narrata e gestita come una guerra. Vedasi a titolo esemplificativo la nomina del generale Figliuolo a commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 e la delega all’esercito della gestione sanitaria.
Va sottolineato un ultimo aspetto: il bilancio dell’Ue cresce con le guerre. Forse per questo, nonostante qualche tentativo, il settore bellico sembra godere di specifiche tutele malgrado la sua dubbia sostenibilità etica e ambientale. Il famoso detto “armiamoci e partite” assume un senso quasi letterale in questo contesto. Negli anni l’industria bellica europea, soprattutto di paesi come la Francia e l’Italia, ha realizzato un doppio business. Da un lato ha guadagnato dall’export di armi verso paesi terzi, soprattutto nordafricani e mediorientali. Dall’altro ha beneficiato dell’aumento degli investimenti per il controllo dei confini europei. Investimenti in costante crescita in reazione alle migrazioni di massa provenienti da paesi in parte armati dall’Europa stessa.
Gli interessi in gioco sono parecchi. Anche alla luce del conflitto in corso e dei conseguenti crescenti profitti dell’industria bellica, le pressioni dei lobbisti del settore contro una regolamentazione delle attività di produzione e vendita di armi sono ulteriormente rafforzate.
Industria bellica e spese militari: argomenti “a statuto speciale”
Ambiente e guerra sono due sfere che non si incontrano mai nelle agende politiche europee. Se da un lato la retorica ecologista sembra saturare il discorso politico, dall’altro il tema dell’industria bellica non viene menzionato quando si parla di transizione ecologica. La guerra, oltre a essere la grande assente alle conferenze internazionali sul clima, sembra essere un argomento tabù anche nelle discussioni europee. Quasi nessuna voce istituzionale si è levata in opposizione al riarmo e alle crescenti spese militari.
Eppure paesi come l’Italia, la Francia e la Spagna hanno addirittura un ministero dedicato alla transizione ecologica. Il silenzio delle istituzioni politiche in tema di impatto bellico sull’ambiente è grave considerati i risvolti disastrosi delle guerre e della produzione di armi. Purtroppo, nel quadro dipinto dai recenti avvicendamenti della guerra in Ucraina, industria bellica e spese militari si rivelano argomenti “a statuto speciale”, destinatari dell’acritico consenso generalizzato.
Virginia Tallone