C’è un significativo sottotitolo al libro di Gianluca Falanga Labirinto Stasi, edito da Feltrinelli, che è “Vite prigioniere negli archivi della Germania Est”. Assomiglia un po’ anche al titolo del film del regista Florian Henckel von Donnersmarck Le vite degli altri. Proprio come quel film racconta della pratica in auge al potere comunista della Repubblica Democratica Tedesca, la DDR. Ovvero intercettare in maniera invasiva i cittadini al minimo odore di opposizione. Opposizione non solo al potere costituito, ma alle categorie di rifermento della dittatura, sia a livello politico che di costume e, soprattutto, culturale.
Qualcosa di devastante, di cui oggi si è persa quasi memoria o, se lo si ricorda, non gli si dà quella rilevanza che merita. Il totalitarismo comunista, al pari di quello nazista, ha condizionato le vite quotidiane delle persone, tanto da distruggerle.
La storia della Stasi negli studi di Falanga
Gianluca Falanga, studioso di storia contemporanea, che vive e lavora a Berlino, sulla materia ha scritto tanto. Gli ultimi due libri, precedenti a questo, sono stati Il ministero della Paranoia. Storia della Stasi e Spie dall’Est. L’Italia nelle carte segrete della Stasi. Entrambi editi da Carocci, hanno affrontato il fenomeno con un approccio prevalentemente storico. In Labirinto Stasi, invece, l’autore si immedesima, attraverso il racconto dei fatti, nei sentimenti e nelle emozioni delle vittime, ma anche dei carnefici.
Sarebbe banale dire del libro “si legge come un romanzo”, anche perché non corrisponderebbe al vero, pur raccontando trame tragiche. Il taglio è sempre quello del saggio. Ma il racconto delle infamie a cui, attraverso pressioni di ogni tipo, erano sottoposti vittime e carnefici stessi, sprigiona una grande forza narrativa. Essa è tale da spingere il lettore a maledire la burocrazia che, per sua essenza priva di anima e intelligenza, finisce col distruggere l’esistenza degli esseri umani. Un discorso che, alzando lo sguardo, comprende la natura stessa della burocrazia, qualsiasi veste indossi. E in qualsiasi latitudine si manifesti, per il potenziale di imbecillità, prima ancora di violenza, che rappresenta.
L’apertura degli archivi della Stasi
Falanga comincia con il racconto di un cittadino qualsiasi, e non certo di fantasia, della ex DDR, Baldur H. Questo si trova di fronte all’apertura al pubblico degli archivi della Stasi. Si tratta di un luogo per altro, frutto del brutalismo sovietico. Con i suoi uffici, meandri, corridoi, celle e quant’altro, incute paura. E i cui “freddi bastioni nel distretto di Lichtenberg all’uscita della stazione della metro Magdalenenstrasse” vengono incontro quasi aggredendo il visitatore. Baldur H. intende andare a vedere le ragioni profonde che hanno portato al suo arresto nel 1959 e che gli è costato ben tre anni e tre mesi di reclusione.
Arrivato all’ufficio preposto, Baldur H. si trova al cospetto del corpo del reato. Ovvero la copia di 1984, il romanzo di George Orwell, che lui, non solo aveva osato leggere di nascosto, ma anche commentare in uno scambio epistolare con un amico.
Il racconto di Baldur H.
Non è come oggi, con Facebook, dove, se posti qualcosa che non rientra negli algoritmi del sistema, ci si limita alla tua esclusione per un certo periodo. No, lì, accadeva che finivi in galera.
Falanga racconta. “Baldur H (…) fra le mani stringeva la copia del libro che aveva segnato la sua vita, proprio la stessa che gli avevano sequestrato quando erano venuti ad arrestarlo. Se l’era fatta restituire dal Tribunale di Gera, dopo la sentenza di riabilitazione penale che, nel maggio del 1991, aveva annullato per palese abuso d’ufficio la condanna inflittagli nel 1959.
Il presidente del collegio giudicante, un magistrato venuto dalla Renania per ricostruire il sistema giudiziario nei territori della ex Germania comunista, lo aveva fatto convocare per consegnargliela di persona. L’avevano trovata, gualcita e ingiallita dal tempo, insieme agli atti del processo in un deposito giudiziario, dov’era rimasta tutti quegli anni a prendere polvere e umidità, come l’arma di un delitto dimenticato”.
Mentre la sentenza, riflesso di una ideologia di partito distorta, dichiarava: “L’imputato è colpevole del reato di agitazione contro lo Stato per essersi procurato sordida letteratura occidentale e averla letta e diffusa…”. Questo gli era costato ventisette mese complessivi tra carcere della Stasi e, quindi, due anni di “rieducazione socialista” nel penitenziario di Waldheim in Sassonia.
Delatori di ieri e di oggi
Si dirà: ma i giudici che pronunciavano tali sentenze, su tali basi, che esseri rivoltanti dovevano essere? E i delatori? Noi, che in tempi più recenti, abbiamo mandato la polizia a prendere un bagnante che, in tempo di lockdown, aveva osato, tutto solo, a prendere il sole sulla spiaggia deserta, forse possiamo arrivare a comprendere come qualcuno possa arrivare a denunciare chi legge un libro proibito dalla legge dello Stato.
Eppure accadeva. E accade. Così come accadeva che i giudici, grazie a delatori, centri di ascolto, cimici piazzate nelle case, vaglio della corrispondenza, infliggessero anni di galera, comportandosi come i giudici di Orwell.
Il Ministero dell’Amore
Falanga, giustamente, intitola uno dei suoi capitoli “Il Ministero dell’Amore”. Allo stesso modo di uno dei quattro ministeri attraverso i quali, in 1984, il Grande Fratello governava Oceania. Quello il cui compito consisteva nel “reprimere sul nascere ogni sintomo di dissenso dalla linea del Partito, che si avvaleva di un vasto apparato repressivo e del lavaggio del cervello per preservare il proprio dispotico dominio”.
Ebbene, questo lavaggio del cervello riguardava anche i giudici stessi, persone non solo apparentemente normali, non mostri cioè, ma anche dotate di una loro intelligenza, affetti, sentimenti, emozioni. Il fatto è che, di fronte al terrore, alla sofferenza continua, tua e dei tuoi cari, di fronte alla persecuzione infernale, la normalità, l’intelligenza, i sentimenti possono poco.
Un regime che ha condizionato la vita delle persone
Ad esempio, uno dei giudici più crudeli era la cognata del noto filosofo Walter Benjamin, cioè Hilde Benjamin, “meglio nota come la Ghigliottina rossa, perché si diceva sapesse pronunciare condanne a morte con il sorriso”. Sta di fatto che “Gli studi di giurisprudenza erano i più rigidamente controllati sul piano politico-ideologico. “Fra i corsi principali c’erano Fondamenti di storia del movimento operaio, Etica Marxista-leninista, Comunismo scientifico”.
Ovviamente sulla interpretazione partitica dei capi stalinisti in auge al momento, circolavano dispense con le sentenze, per orientarsi. Queste arrivavano non solo a rispondere alle direttive ministeriali, “ma avevano il dovere di mettere in atto le risoluzioni del Comitato centrale”.
Carnefici anonimi
Il povero Baldur H. ebbe pure la ventura, alla caduta del comunismo, di incontrare il giudice Mascher che lo aveva condannato. Roba da spaccargli la faccia, ma ormai “non riusciva a odiare nemmeno Mascher. Non più”, pur mantenendo il disprezzo per quelle “centinaia di migliaia di anonimi carnefici da scrivania che, non importa con quale mansione e incarico, avevano funzionato come oliati ingranaggi di una macchina infernale. “Eravamo strumenti della loro volontà, ma senza un contatto diretto. Era prassi consolidata che i pubblici ministeri copiassero nel loro atto di accusa il rapporto conclusivo delle indagini trasmesso dalla Stasi, praticamente senza modifiche”. Confessa uno dei giudici. Ed era chiaro che le procure si muovessero a orologeria. Un nemico da togliere di mezzo, un rivale, interessi da difendere, la non sudditanza piena a quanto il potere pretendeva da tutti i cittadini, ed ecco, puntuale, arrivare la Stasi, e con essa, subito dopo, la condanna.
La direttiva 1/82
Il tutto era regolato da direttive ministeriali. Una in particolare, la 1/82, relativa ai rilievi di sicurezza. “Servivano a discriminare, tenendole lontane da posizioni socialmente o professionalmente sensibili o esposte, individualità giudicate di attitudini ‘ostili-negative’ rispetto al regime e all’ideologia dello Stato, non aderenti alla norma di vita pretesa dal Partito, non sufficientemente leali alla società socialista, ideologicamente vacillanti o privi di consolidata ‘coscienza di classe’”.
In questo caso, nonostante il fondamento dello Stato fosse il lavoro “la conseguenza erano rappresaglie, divieti, limitazioni e difficoltà sul lavoro e nella vita quotidiana, provvedimenti che in molti casi preludevano a un controllo del soggetto per un periodo di tempo più lungo, nel quadro di un procedimento operativo volto a contenere il potenziale negativo del singolo nella società”.
Ed è bene sottolineare che ciò avveniva anche in assenza di reato. O quando si preferiva non procedere alla persecuzione per via giudiziaria. “Si disponevano misure volte a colpire la persona in questione sul piano psicologico o manipolare la tenuta interna di un’organizzazione, sanzionando il comportamento divergente senza ricorso al diritto penale”.
Il “Piano delle misure”
A questo bastava l’intervento, pianificato nei minimi dettagli, da uno o più funzionari che in un documento denominato “Piano delle misure”. Il Piano prevedeva intercettazioni telefoniche, ambientali, perquisizioni occulte dell’appartamento, della stanza d’albergo, del domicilio che fosse. Osservazione o pedinamento con o senza documentazione fotografica, controllo della corrispondenza, violando così diritti anche formalmente garantiti dalla Costituzione, come il segreto postale.
Un rischio, questo, è bene ricordarlo, che non si corre solo ed esclusivamente nelle dittature conclamate. Ma anche là dove il concetto di bene comune, così astratto nel momento in cui si dimentica che la società è composta da tanti singoli e liberi cittadini, viene stabilito da un ristretto nucleo di funzionari in carne e ossa privi, in quanto tali, con i loro limiti anche culturali, di quella sapienza divina che solo i credenti e i fanatici affidano allo Spirito Santo o al Comitato Centrale del Partito.
Diego Zandel
Gianluca Falanga, Labirinto Stasi, Feltrinelli, pag.412, €. 22,00