Figlio del nostro tempo, tra sperimentazione e astrazione Karol Sudolski è uno dei visual artist più interessanti sulla scena italiana contemporanea. Milanese acquisito, polacco d’origine, si muove tra bugie, fortunati eventi e sfortunati incontri. Siamo tornati a Recontemporary a scambiare due chiacchiere con lui in occasione della sua prima mostra personale, “You are my anchor point”.
Oggi Karol Sudolski espone a Rec con “You Are my Anchor point”. Quali sono state le tappe fondamentali per arrivare a questo punto?
Io non ho mai voluto o pianificato di fare l’artista, è stato merito e colpa di una serie di fortunati incidenti e sfortunati incontri che hanno plasmato questa realtà.
Influenzato dai videogiochi giapponesi
Quali sono state le fonti d’ispirazione?
Sicuramente Final Fantasy ha influenzato la mia fantasia. Si tratta di una serie di videogiochi giapponesi di ruolo in cui al di là del gioco di per sé hanno grande importanza la storia, i dialoghi e la componente estetica. Secondariamente i videoclip, nonostante il mio rapporto con la musica sia bizzarro, perché non ho orecchio. Nei videoclip ci sono immagini che completano i suoni e io riesco a gioire delle situazioni che scatenano.
Ho studiato design della comunicazione e avevo dimestichezza con la macchina fotografica. Volevo fare il fotografo e attraverso esperienze un po’ bizzarre, il rifiuto di una scuola e la decisione di fare il jolly, cioè essere senza specializzazione, mi hanno portato ad avere una filosofia per cui prendo gli incidenti come delle opportunità.
E i video?
Ho incominciato ad interagire con camerAnebbia, uno studio che si occupa di installazioni interattive ambientali per istituzioni artistiche e culturali. Lavorando con loro sono riuscito a superare l’idea che avevo del video, confinato nei limiti di un rettangolo, e innamorarmi della sua versione scenografica. Ho anche approfondito la mia conoscenza di After Effects, software che ora costituisce l’ambiente di sviluppo principale per tutto il mio lavoro.
Per Karol una ricerca continua
In un’esperienza specifica mancava il materiale necessario per produrre il rilievo di Toledo. Il caso ha voluto che in quel periodo avessimo scoperto l’esistenza della fotogrammetria sull’analisi dei frame. Lavorando sui singoli fotogrammi estratti da un video girato da drone, abbiamo generato una vista 3D della città. I risultati non sono stati dei migliori, ma ciò mi ha permesso di imparare a fare le scansioni.
La scansione dei corpi quando è arrivata?
Sempre per caso, sempre con il progetto su Toledo. La componente sonora era nelle mani di Liam, musicista e sound designer, che si è trovato intorno a me nel momento in cui, imparate le basi di questa tecnica, volevo un soggetto vivo. In quel periodo mi stavo occupando dell’editing del suo primo videoclip come L I M e in maniera naturale le fotogrammetrie hanno trovato il loro posto nell’impianto visual del tour.
Spulciando a proposito di Karol Sudolski si parla di tecnica fotogrammetrica, di che cosa si tratta?
La fotogrammetria riguarda la possibilità di costruire modelli 3D a partire da una serie di scatti fotografici. Si tratta quindi di centinaia di foto fatte a un soggetto esistenti, catturando posizioni che assumono nella realtà, che attraverso software specifici si possono interpolare per ottenere una sorta di calco del reale. La resa è molto vera: nella pelle ci sono tutti i chiari scuri e i dettagli. Una cosa che è molto difficile da generare in 3D è la pelle, che, nonostante i budget, risulta molto artificiosa. La pelle vera è solamente quella fotografata e la texture dei miei modelli fa effettivamente riferimento a quelle foto.
Errori e incertezze che catturano l’stante
In che cosa si differenziano i modelli di Karol da quelli professionali?
È interessante notare come il contesto delle mie scansioni sia molto difettoso, nonostante questo guardando la pelle si ha una sensazione di realtà ed è il contrario della produzione ad alto budget. I miei modelli sono difettosi. Una fotogrammetria classica prevede 100-300 macchine fotografiche sincronizzate, ognuna posizionata per catturare i dettagli nello stesso istante. Io invece lavoro da solo con una camera e mi muovo intorno al mio soggetto. Di conseguenza provoco delle incertezze, degli errori dovuti al fatto che la persona è viva. E dunque anche se cerca di stare perfettamente ferma respira, si muove, interagisce in qualche modo.
Per Karol quindi l’imperfezione quindi è un momento centrale della sua arte?
È una conseguenza di questo metodo artigianale, e un po’ mi piace perché la riconduco al pensiero di queste scansioni come a dei ricordi in 3D. Sostanzialmente c’è una parte a fuoco, precisa. Spesso è un dettaglio del corpo. Tutto è molto puntuale, sembra reale. Quando ci si allontana dal fulcro del ricordo ci sono meno informazioni, magari il corpo si è mosso un po’ di più e l’immagine diventa difettosa. Ci sono più buchi, più incoerenze, c’è un modo specifico in cui il corpo interpreta quelle immagini che hai visto. Un po’ sfumate come nei ricordi: c’è una parte centrale chiara e il contesto è un po’ più fumoso, e se cerchiamo di definirlo lo alteriamo.
Una ricerca che parte dal proprio interesse
Si potrebbe migliorare la prestazione della tecnica?
Potrei migliorare la tecnica di scatto investendo sulla struttura di telecamere e macchine fotografiche per scattare nello stesso istante, ma renderebbe più alieno e meno intimo il processo.
Qual è il significato della mostra al Rec?
Nessuno. You are my ancor point, è una frase che è uscita come incidente/battuta mentre lavoravo con camerAnebbia. Il punto di ancoraggio o Pivot è il baricentro degli elementi nel software di animazione 2d e 3d. È il punto di origine di ogni trasformazione di scala, rotazione o posizione che il soggetto subisce. Nei miei artwork i soggetti non compiono azioni e non hanno vita propria. Sono io che guido la camera virtuale in orbita intorno a loro, in un limbo sospeso senza riferimenti spazio-temporali, trasformandoli nel punto di ancoraggio del mio interesse. Che è la stessa cosa che succede durante la fase di scatto per ottenere le scansioni.
Questa era la prima mostra. Abbiamo pensato di utilizzare quel nome, con cui io non mi presento veramente, perché non è un nome d’arte ma una frase random, un po’ tecnica e un po’ romantica, che spiega questo metodo di lavoro.
Come si immagina Karol Sudolski tra dieci anni?
Non ci penso mai. Non ho previsioni che vadano oltre le due settimane. Progetti o previsioni di come sarebbe dovuta andare la mia vita, non mi appartengono. Per un po’ ho pensato “dovrei trovarlo questo punto di riferimento, questa coordinata spaziale”, ma ogni volta che ci provavo non riuscivo comunque a raggiungere l’obiettivo. Uno dei miei pochi talenti penso sia afferrare quello che mi succede senza paura che sia una scelta sbagliata, dedicandomi veramente a quello che mi interessa.
Nicolò Milanesio Arpino