Sì sì. Capisco bene che il tenente Rommel, arrivato sul Matajur abbia pensato: “È fatta”, “l’Italia è sconfitta”.

A sud, infatti, si stende la valle del Natisone giù giù, senza ostacoli fino a Udine: e lì il quartier generale del “Governo di Udine”, del Generalissimo Cadorna.

E lì la pianura.

Immagino i ragazzoni delle truppe scelte d’assalto tedesche che pregustano l’inseguimento del “Re Sciaboletta” fino a Roma, che aprono di forza il varco alle truppe dell’Alleato austrungarico.

Da lì poco a est e dietro il Kolovrat si intuisce la valle dell’Isonzo. Dell’Isonzo insanguinato, della resistenza austrungarica alle vane “spallate” della Terza Armata, con la ripetuta ecatombe per guadagnare via via qualche centinaio di metri, ad andar bene.

Qui, invece, si è aperta una falla.

La sorpresa, l’aggiramento, le nuove mitragliette leggere individuali e – udite udite! anzi, udiamo udiamo! – la dotazione individuale di minuziose cartine geografiche dei luoghi, il perfetto coordinamento tra le avanguardie degli assaltatori e la direzione del fuoco delle batterie d’artiglieria sembrano determinare una svolta decisiva.

Davanti a loro verso il sud, verso la rigogliosa pianura la rotta catastrofica della Seconda Armata italiana, che costringerà ad un precipitoso arretramento anche la Terza Armata schierata sul Carso.

Il Matajur, ad ovest del Kolovrat, si raggiunge comodamente dal Rifugio Pelizzo, meno di un’ora su comodo sentiero in mezzo al verde.

Arrivati in cima a questo panettone, a nord si staglia l’imponente profilo del Monte Canino. Sì, quello del canto: “(…) se avete fame guardate lontano, / se avete sete la tazza alla mano, / se avete sete la tazza alla mano/ che ci rinfresca / la neve ci sarà”.

Quel passaggio dalla seconda persona plurale alla prima persona plurale che scandisce lo spirito cameratesco ma ancor di più l’unità e la compattezza del Corpo degli Alpini.

Voi siamo noi.

Non sono riuscito a percorrere il sentiero che unisce il Matajur al Kolovrat, ma nelle due occasioni in cui sono andato in zona, la prima sul Kolovrat, la seconda sul Matajur, sono sceso a Caporetto, che sarà la prossima tappa.

Dal morbido verde del Matajur è facile immaginare la potenza e l’energia di chi era salito con forza, determinazione, organizzazione, rapidità travolgenti.

È anche facile immaginare la rotta e lo sbandamento di chi di fronte a questa mossa si è trovato spiazzato e incapace di reagire.

Una fuga che ci si era illusi di contenere giunti al Tagliamento, ma anche il Tagliamento fu superato, nonostante episodi di eroismo che gli studiosi che hanno approfondito il tema della Disfatta di Caporetto hanno qua e là intercettato ed evidenziato.

La fuga è poi giunta al Piave, la cosiddetta “battaglia di arresto”: far saltare i ponti e trincerarsi al di là del fiume.

Già, il fiume.

Il fiume che quella volta ha dato una mano decisiva: ingrossato dalle piogge, fatti saltare i ponti si è rivelato insuperabile per gli inseguitori e ha consentito alla Seconda e Terza Armata italiane di riorganizzarsi.

Anche nel giugno del ’18 Giove Pluvio e il Piave hanno dato una bella mano all’esercito italiano, rinforzato con truppe francesi e inglesi, a contenere l’offensiva austrungarica meticolosamente preparata. I ponti di barche degli assaltatori furono spazzati via dal fiume in piena e non solo dalla tenace resistenza delle nostre truppe.

Claudio Zucchellini

Claudio Zucchellini

Avvocato, Consigliere della Camera Civile di Monza, attivo in iniziative formative per Avvocati, Università, Scuole e Società Civile.

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