Nell’acceso e preoccupato dibattito sul grande assente nel programma del governo Draghi, e cioè “Il Lavoro”, manca una riflessione su un aspetto specifico.
O, meglio, il tema è generalmente derubricato ad uno dei tanti titoli di questa grande e drammatica questione aperta, peculiare di questa terza decade del III millennio.
Stiamo parlando delle Politiche Attive del Lavoro e della loro importanza fondamentale per cercare di avviare almeno un progetto che fissi delle priorità, approfondisca il “come” attuarle in modo moderno e non ideologico, destini delle risorse importanti a questo capitolo di spesa.
Oggi, nella spasmodica attesa dell’arrivo dei fondi europei, sembra quasi che con quelle risorse a disposizione, quasi per incanto, “Il Lavoro” non sarà più una criticità: con i soldi si troveranno le soluzioni per ovviare ai problemi dei già disoccupati (un milione, composto soprattutto di donne e di giovani sotto i 35 anni, soltanto nell’ultimo anno e nonostante il blocco dei licenziamenti) o a quelli dei futuri licenziati appena verrà tolto proprio quel blocco, nei prossimi mesi.
Non è vero!
Questa é una pia illusione!
Chiara Saraceno e Marco Bentivogli hanno provato a scardinare questo falso paradigma, accompagnato dall’equazione nuovi investimenti uguale nuovi posti di lavoro.
Problema risolto! Non è vero. Vediamo il perché.
“La questione della formazione – ha scritto in questi giorni Chiara Saraceno su La Repubblica, a proposito del decreto semplificazione – è la grande assente dal dibattito sul lavoro di questo lungo anno, anche da parte dei sindacati. Tutto lo scontro è concentrato sulla data di scadenza del blocco dei licenziamenti, che per altro non è riuscito ad evitare la perdita del lavoro da parte di oltre un milione di lavoratori… Ma nulla è stato fatto per consentire sia a chi ha perso il lavoro senza trovarne un altro, sia a chi è rimasto “congelato” nella cassa integrazione a zero ore, di accedere ad una formazione che lo/la riqualificasse in direzione della domanda di lavoro che c’è e non sempre incontra un’offerta con le qualifiche adatte e di quella che si aprirà con gli investimenti promossi dal Pnrr. Perché, appunto, non c’è automatismo tra crescita della domanda di lavoro e disponibilità di offerta adatta. Occorre investire seriamente in formazione e processi di riqualificazione lungo tutta la filiera delle occupazioni”.
Marco Bentivogli, ex sindacalista e oggi uno dei fondatori-promotori del movimento denominato “Base” che non vuole rappresentare l’ennesimo partitino ma semplicemente un movimento di idee e progetti per il futuro del Paese in un orizzonte temporale non vincolato dalle scadenze elettorali, Bentivogli, dicevamo, ha rincarato la dose.
Ha gridato tutto il suo malessere contro una politica del lavoro che si dimentica della formazione: “Le politiche attive in Italia non esistono, i Centri per l’Impiego non hanno mai collocato più del 3% di chi vi si è rivolto. Il Pnrr li riempie di risorse senza nessun progetto. Un governo deve occuparsi seriamente di lavoro, aprire il confronto con i rappresentanti del lavoro organizzato e degli imprenditori ma non appaltare mai a nessuno la propria capacità di sintesi nell’interesse generale… L’iniziativa doveva esprimere forza proporzionale alla fragilità contrattuale delle persone. E invece, un milione di persone sono state lasciate a casa e nel discorso pubblico sono invisibili… Non esiste, allo stato, alcun piano per “ristorare” le competenze di chi le ha perse, di chi le deve acquisire. E’ molto più bella la contrapposizione simbolica senza vera iniziativa politica”.
Bentivogli chiude il suo ragionamento con un grido d’allarme: “Le persone che hanno fatto quasi sempre cassa integrazione del febbraio 2020, sanno bene che in fondo al tunnel resteranno senza lavoro. Con Lucia Valente e Pietro Ichino abbiamo costruito una proposta concreta su come, in questi casi, togliere queste persone da una agonia ad esito scontato, utilizzare ammortizzatori sociali ma trasformare questi mesi per costruire percorsi formativi forti per riportare al più presto le persone al lavoro”.
L’errore è stato quello di bloccare i licenziamenti e concedere a tutti la Cassa Integrazione senza però accompagnare tale misura ad interventi sulla formazione degli addetti a rischio del loro posto di lavoro.
Ci si lamenta che il mercato richieda lavoratori in certi settori di sviluppo (tutto il mondo digitale, ad esempio) ma non si attiva nulla per la formazione di queste risorse.
In questo sconfortante scenario paghiamo anche le conseguenze culturali e sociali del Reddito di Cittadinanza. Uno strumento necessario e dovuto proprio alla luce delle trasformazioni rivoluzionarie in corso nel mercato del lavoro, ma che è stato invece attuato e gestito in modo tragico, con un misto di incompetenza e inettitudine.
La misura simbolo dell’esperienza grillina nel primo e secondo governo Conte ci sta fornendo un quadro devastante dei risultati ottenuti dopo quasi due anni di vita.
Il provvedimento costosissimo (26 miliardi di euro previsti nei tre anni di programmazione) rischia di costituire un danno permanente per le già malandate casse dello Stato. Chi si assumerà, si chiede Francesco Maria Del Vigo, la briga di eliminare uno strumento utilizzato da più di un milione di famiglie e dunque da qualche milione di elettori? Il Reddito di Cittadinanza è una “bomba sociale che rischia di esplodere in mano a chiunque cerchi di disinnescarla”.
Infatti, come dicevamo, al di là del costo economico del provvedimento, c’è il suo portato etico e culturale. Costituisce infatti una cattiva lezione di uno Stato, ultra assistenzialista, che paga i propri cittadini per non fare nulla, neanche per cercare di imparare un nuovo lavoro.
Con il risultato che coloro che percepiscono tale reddito si inseriscono più difficilmente nel mercato del lavoro e, se lo fanno, in molti casi cercano di farlo in modo irregolare, proprio per non perdere il prezioso emolumento.
Senza contare poi che nelle pieghe di questa misura, lo ripetiamo, di per sé probabilmente necessaria ma così come attuata in Italia assolutamente devastante, si infiltrano i cosiddetti furbetti o, peggio, gaglioffi.
Le cronache di questi ultimi mesi sono piene di episodi di erogazione del Reddito di Cittadinanza a delinquenti o comunque a soggetti con un lavoro in nero o addirittura a migranti “formalmente” clandestini.
Negli ultimi due anni sono più di quattrocentomila le famiglie che hanno percepito tale emolumento senza rientrare nei parametri della legge: un terzo quindi delle famiglie che si sono iscritte a tale misura!
Secondo alcuni autorevoli esperti della materia, dopo questi due anni di esperienze negative, sarebbe davvero giunto il momento di mettere mano a questo costoso e diseducativo esperimento grillino per inserire questa misura in una nuova e moderna politica attiva della formazione.
Come giustamente sottolineato da Bentivogli, i Centri per l’Impiego sono stati un fallimento totale.
La parentesi Parisi all’Anpal ci ha fatto perdere tempo e denari per riformare un ente che, oggi, è una idrovora mangia soldi e non produce alcun risultato (i ricollocati sono meno del 3% degli iscritti).
A parole, dunque, il lavoro è una priorità, nei fatti no.
Con tutte le aggravanti legate alla sicurezza dei luoghi di lavoro con la drammatica contabilità dei morti registrata negli ultimi mesi; alla orrenda e vergognosa evoluzione antropologica di molti esseri umani come noi per cui denaro, business e potere sono i valori di riferimento del loro modello economico.
“Il contesto ci parla di una grave lesione della nostra coscienza civile – ha scritto Marco Revelli su La Stampa – di una sorte di catastrofe antropologica che fa retroagire la difesa della vita umana rispetto ai vincoli di bilancio, alla logica cieca dei profitti e delle perdite. In fondo, è lo stesso sospetto che grava sulla morte di Luana, dove si indaga se la cellula che regolava la chiusura del cancelletto d’accesso agli ingranaggi dell’orditrice non sia stata manomessa, in nome, ancora, della velocità e della produzione”.
Ed ecco le conseguenze di questa terribile deriva etica e sociale. Centinaia di morti sul posto di lavoro soltanto dal 1° gennaio 2021; tragedie come quella di Luana o come quella della funivia del Mottarone o dello scarico di rifiuti tossici in campi di ortofrutticoli con conseguenze disastrose per la salute futura dei consumatori di quei prodotti.
La pandemia ha accentuato e centrifugato tutti questi elementi.
Oggi, saremo ancora in tempo per occuparci però del futuro, della formazione (tra l’altro, come abbiamo scritto nella prima puntata di questo reportage, che dovrà diventare obbligatoriamente Permanente), dei giovani, delle donne e dei disoccupati, delle parti deboli e delle vittime insomma di questa dannata situazione.
Ripartiamo davvero da una seria progettualità delle politiche attive del lavoro con pensieri e idee concrete, nate magari sulla scorta di esempi internazionali virtuosi.
Con delle idee chiare, moderne ed efficaci allora sì che i soldi del Pnrr serviranno e ci permetteranno di mettere le gambe ai progetti.
“Speriamo si apra finalmente la stagione della evidence-based policy – hanno scritto Tito Boeri e Roberto Perotti su La Repubblica – della politica economica cioè basata sui dati, sulla evidenza (scientifica e sul campo) e sulla valutazione seria di esperienze domestiche e straniere. Non arriveremo mai a certezze, ma discutere di dati è meglio che improvvisare e millantare. Il nostro è il Paese del grande mismatch: molte più persone che altrove dichiarano che le loro competenze non vengono adeguatamente utilizzate, mentre le imprese si lamentano di non trovare le competenze richieste. C’è molto da fare per migliorare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro ed è qui che le conoscenze tecniche giocano un ruolo fondamentale… Non c’è bisogno di luminari accademici (che spesso seminano le idee generali ma sono beatamente ignoranti dei dettagli specifici) ma persone che abbiano una buona conoscenza di questa vasta letteratura e che siano al corrente di queste sperimentazioni sul campo”.
Serve cioè pragmatismo, lucidità, competenza per riscrivere un nuovo piano operativo per una sana e sostenibile politica attiva del lavoro.
Dobbiamo però incominciare subito a lavorarci sopra perché abbiamo già perso troppo tempo.
Nella prossima puntata di questa inchiesta approfondiremo alcune proposte emerse nel dibattito tra addetti ai lavori.
Riccardo Rossotto