L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Così hanno scritto i padri costituenti nella Carta e così si dovrebbe intendere lo sviluppo del paese. Davanti alla sfida del Piano di ripresa e resilienza ci sono delle lacune che non si possono non sanare. Quello dell’educazione permanente è il primo tassello di uno sviluppo concreto e duraturo.
Questo che pubblichiamo è il primo intervento di una trilogia dedicato al tema che inaugura, quindi, un nuovo dossier de L’Incontro.
Tutti concentrati sul piano vaccinale e sul contenuto del Recovery Plan rischiamo di perderci un punto fondamentale del futuro dell’Europa.
A Oporto, la scorsa settimana, si è tenuto un vertice europeo, finalmente anche “fisico”, sui temi sociali del lavoro e della formazione nell’era delle pandemie.
Il “vertice sociale” ha voluto mettere a confronto i rappresentanti dei 27 stati membri con le varie parti sociali interessate a questa tematica, per condividere una strategia auspicabilmente comune per il futuro del mondo del lavoro in Europa.
Accanto alla rivoluzione verde e a quella digitale, Bruxelles si sta infatti preparando a lanciare la rivoluzione dell’Educazione Permanente.
Già, proprio sul termine “permanente” si gioca la sfida rivoluzionaria.
Siamo stati, infatti, tutti educati, soprattutto quelli della nostra Old Generation, che la formazione culturale e professionale era tipica della prima fase delle nostre vite: quella dell’apprendimento, dello studio, dell’impossessamento dei saperi.
Poi, avremmo costruito le nostre carriere, a tutti i diversi livelli, valorizzando proprio quelle lezioni ricevute in “quella stagione” della vita.
Ci siamo detti più volte nella fase della maturità, “non si deve mai smettere di imparare… chi fa “l’imparato”, è destinato ad essere sconfitto ed estromesso dal mercato”; non so, sinceramente, se condividendo sul serio tale insegnamento, e e poi, soprattutto, se concretizzando davvero tale giusta e virtuosa riflessione.
Fatto sta’ che adesso, allo scadere del primo ventennio del terzo millennio, cambia tutto.
Si rivolta il paradigma: la formazione diventa permanente.
Questo sarà uno dei capisaldi della nuova Europa.
In un mercato del lavoro, nuovo e diverso, bisogna diventare anche, obtorto collo, più flessibili, più disponibili a cambiare lavoro anche più volte nella vita.
Ad abbandonare certe “confort zone” legate a un’epoca che non esiste più.
Ogni volta, magari, ripartendo proprio da zero e imparando “ex novo” un nuovo mestiere, quello di cui ha bisogno il mercato.
Non sempre quello che piace a noi.
Su questo nuovo paradigma, nascente dalle nuove esigenze del mercato del lavoro, la scuola dovrà essere riformata e rafforzata diventando così lo strumento destinato a mettere le basi per un apprendimento e un aggiornamento che dovrà durare tutta la vita (lifelong learning), come ha giustamente scritto Andrea Bonanni su Repubblica.
Entro il 2030 almeno il 60% della popolazione adulta in Europa dovrà partecipare ogni anno a corsi di aggiornamento o di educazione.
Per raggiungere questo obiettivo, entro il 2025 (tra soltanto quattro anni, cioè) 120 milioni di adulti, pari al 50% della popolazione europea, dovranno partecipare a corsi di formazione annuali.
Alcuni paesi europei sono già avanti in questo processo: Svezia, Olanda, Austria, Ungheria, Finlandia e Danimarca sono già oggi al di là della soglia del 50% di adulti impegnati ogni anno in una formazione permanente. Germania e Francia stanno raggiungendo la metà della popolazione, l’Italia è invece poco oltre il 30%, pur essendo un paese che avrebbe il bisogno maggiore di una vera riqualificazione professionale della sua forza lavoro soprattutto in relazione agli effetti economici negativi della pandemia.
Abbiamo anche un altro “triste” primato: siamo al terzultimo posto in Europa per quanto riguarda la conoscenza delle tecnologie digitali. La stragrande maggioranza dei paesi membri dell’UE è già oltre la soglia del 70% della popolazione, noi siamo poco oltre il 40%.
L’obiettivo di Bruxelles è quello del 70% per tutti i lavoratori dei paesi membri entro il 2025.
Sarà grandioso l’investimento di Bruxelles per attuare il progetto sulla formazione permanente: si stimano 48 milioni di euro all’anno per i prossimi 10 anni.
In altre parole, circa 500 milioni di euro nel prossimo decennio per migliorare le possibilità di accesso al mercato del lavoro per oltre il 70% dei lavoratori.
Anche i finanziamenti e le sovvenzioni del Recovery Fund daranno la priorità all’educazione permanente.
Questa grande rivoluzione anche culturale finora è rimasta quasi sottotraccia in Italia: forse perché l’argomento è spinoso e impone a tutti noi, soprattutto alle nuove generazioni, un approccio diverso all’accesso al mondo del lavoro e ai suoi possibili mutamenti nel corso di una carriera.
Ferruccio De Bortoli ci ha richiamato all’ordine.
Ha sviluppato sulle colonne del Corriere della Sera alcune stimolanti riflessioni in merito a questa rivoluzione educativa.
La sua è una analisi lucida, cinicamente spietata sulla pigrizia conservativa del nostro paese.
“In Italia si è parlato assai poco, quasi nulla, e questo la dice lunga su quanto la cura del capitale umano sia spesso un’etichetta- delle proposte che la Commissione Europea ha presentato all’ultimo vertice di Oporto. Ovvero la rivoluzione permanente che non è per Bruxelles meno importante di quella digitale o verde”.
“Siamo il paese – ha scritto De Bortoli – che ha più bisogno di riqualificare i propri profili lavorativi dunque tutelare i posti di lavoro e crearne di nuovi… si dirà: ma il 2030 è lontano. C’è tempo. No, perché è sfuggito ai più che per raggiungere questo obiettivo entro il 2025, 120 milioni di europei torneranno idealmente sui banchi di scuola. Una sorta di grande campagna di vaccinazione educativa”.
L’ex direttore del Corriere della Sera conclude il suo ragionamento con una nota positiva di speranza: “Un ambizioso obiettivo da raggiungere tutti insieme, con l’orgoglio di farli i corsi, a tutte le età. Senza quel sintomo di stanchezza e disillusione che accompagna spesso il desiderio di pensionamento anticipato, la filosofia di fondo di Quota 100 , senza quel senso di sconfitta e rassegnazione presente in tanti percettori del reddito di cittadinanza”.
Bisogna, in altre parole, far diventare la cultura della formazione permanente il centro dei diritti di cittadinanza: “Occorre – scrive ancora De Bortoli – anche una grande consapevolezza da parte dei cittadini che devono sentire il traguardo del miglioramento continuo del capitale umano come un loro impegno personale, un dovere civico… non basta quindi investire solo denari. Senza competenze adeguate i miliardi di euro non contano nulla”.
Solo così si potranno ridurre le disuguaglianze di genere e di territorio e dare finalmente una opportunità ai giovani affrontando: “Quello che è il più grande scandalo italiano: oltre 2 milioni di ragazze e ragazzi, tra i 15 e i 29 anni, che non studiano e non lavorano”.
Riccardo Rossotto