Il 16 marzo Bernardo Bertolucci avrebbe compiuto 80 anni. Bertolucci è, insieme a Marco Bellocchio e a Pier Paolo Pasolini, l’esponente più importante del nuovo cinema italiano degli anni Sessanta. In quel decennio in tutto il mondo si parlava di nuovo cinema e c’erano specifiche correnti che certificavano questo atteggiamento nuovo, giovane e libero, fin dal nome che si erano scelti. In Francia c’era la Nouvelle Vague, in Gran Bretagna il Free Cinema, in Germania il Junger Deutscher Film di Wenders, Herzog e Fassbinder, in Cecoslovacchia la Nová Vlna di Miloš Forman, in Polonia Roman Polański guidava la Scuola di Łódź, negli Stati Uniti c’era il New American Cinema, in Brasile il Cinema Novo di Glauber Rocha. E si potrebbero fare molti altri esempi. 

In Italia, invece, una corrente vera e propria non c’era. C’erano grandi personalità: oltre ai citati, dovremmo ricordare anche i fratelli Taviani, Tinto Brass (il suo esordio In capo al mondo è uno dei film più belli del decennio), Liliana Cavani. Ma ognuno era per conto suo. E proprio nel decennio in cui il cinema italiano era al massimo del suo splendore e della sua visibilità nel mondo, superando in fatturato per tutto il decennio anche Hollywood. 

Perché qui da noi non c’è stato un movimento collettivo nel cinema?

La rivolta degli anni Sessanta, prima di essere politica e culturale, è stata generazionale, anche nel cinema. In un memorabile articolo, Truffaut si scagliava “contre le cinéma de papa”, inteso come il cinema “perfettino”, ben scritto, ben recitato, incapace di raccontare la verità. I movimenti di nuovo cinema volevano quello, volevano un cinema che non riproducesse modelli stantii ma registrasse le novità. In Italia, se vogliamo raccontare come il cinema ha parlato delle trasformazioni che portano in dieci anni l’Italia da paese agricolo e devastato dalla guerra a quinta potenza industriale del mondo, dobbiamo basarci sul cinema non dei giovani ma dei cinquantenni. Il boom economico è raccontato dai grandi maestri (Fellini, Antonioni) e dai grandi registi di commedia (Monicelli, Risi, Comencini). Se vogliamo capire il vuoto esistenziale portato da un benessere mai visto prima guardiamo La dolce vita o L’avventura, se vogliamo capire come è fatto l’homo novus del miracolo economico pensiamo al Gassman di Il sorpasso o ai ladri ingenui di I soliti ignoti. Quei film segnano il cambiamento. I pugni in tasca o Prima della rivoluzione raccontano un altro disagio, che si espliciterà nelle rivolte di fine decennio, in un contesto diverso.

Inoltre, i giovani autori non si incrociavano tra loro. Hanno fatto tutti il Sessantotto, però in modo molto diverso. Bellocchio tra i marxisti-leninisti, Bertolucci a Parigi frequentando la Cineteca (The Dreamers è molto autobiografico), Pasolini scrivendo poesie a favore dei poliziotti ma poi collaborando con Lotta Continua a un film su Pinelli e sulla strage di piazza Fontana. Percorsi eccentrici, dunque. Ma la cinefilìa di Bertolucci, quella passione per Hollywood che lo porta a scritturare Burt Lancaster per un film sulla storia sociale della sua terra (Novecento) e a far diventare un thriller western la storia di un capo partigiano (La strategia del ragno) è uno dei sentimenti più forti del cinema italiano del periodo. Era molto apprezzato da quei ragazzi che un po’ ingenuamente andavano in piazza sperando di cambiare tutto e poi la sera andavano un po’ alla chetichella guardarsi i western con John Wayne. E io ne so qualcosa.

Steve Della Casa

Steve Della Casa

Critico cinematografico e giornalista. E stato tra i fondatori del Torino Film Festival, che ha diretto fino al 2002. Ha presieduto dal 2006 al 2013 la Film Commission Torino Piemonte e ha diretto dal...

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