Novant’anni fa, con il Giovedì Nero di Wall Street scoppiava la Grande Crisi. Poco più di dieci anni fa iniziava una nuova crisi, secondo molti più grave di quella del 1929, da cui gli Stati Uniti sono usciti, mentre in Europa ne stiamo ancora pagando le conseguenze. All’orizzonte si affaccia una nuova recessione europea. In un momento come questo può essere utile andare a rivedere come gli Stati Uniti affrontarono la crisi del 1929, perché si possono ritrovare analogie con quanto fatto e non fatto dall’Unione europea e in Italia nell’ultimo decennio.
Allo scoppio della Crisi del ’29, alla Casa Bianca sedeva il repubblicano Herbert Hoover, che puntò su politiche di rigore fiscale e monetario con lo scopo di riequilibrare il bilancio e ridare fiducia alle imprese. Tre anni dopo l’economia americana era ancora sotto shock e la povertà dilagava: 14 milioni di disoccupati, di cui oltre un terzo al di sotto dei 25 anni.
Alle elezioni presidenziali del 1932 gli americani decisero di cambiare strada e Hoover fu sconfitto dal democratico Franklin Delano Roosevelt. Da una politica fiduciosa nell’autoregolazione del mercato e attenta innanzitutto al pareggio di bilancio si passò a un deciso interventismo dello Stato, con una politica di deficit, non in funzione meramente assistenzialista ma per creare lavoro immediato e ricostruire un Paese depresso. Fu il New Deal rooseveltiano, caratterizzato, tra le altre cose, da misure contro la povertà e a difesa dell’occupazione, e da una serie di programmi di opere pubbliche, con la creazione di agenzie federali ad hoc e l’assunzione dei disoccupati per costruire nuovi edifici pubblici, strade, ponti, musei, per opere di rimboschimento e di controllo delle inondazioni.
Contro la tradizionale filosofia politica americana del laissez-faire, il New Deal introdusse l’idea di un’economia regolata dal governo al fine di equilibrare interessi economici contrastanti. Non tutti gli interventi furono coronati da successo e i giudizi sull’efficacia del New Deal sono discordanti ma alla fine, prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, la disoccupazione era più che dimezzata e l’economia americana si era rimessa in movimento sulla base di una nuova visione del ruolo dell’intervento pubblico in una situazione di depressione, pur all’interno di un’economia capitalistica.
Il primo intervento del New Deal rooseveltiano fu la creazione del Civilian Conservation Corps (CCC), rivolto principalmente a giovani disoccupati e non sposati tra i 18 e i 25 anni, impegnati in progetti di conservazione del territorio e che vivevano in campi di lavoro organizzati in modo semi-militare. Il compenso era di 30 dollari al mese, di cui 25 dovevano essere obbligatoriamente spediti ai famigliari, oltre a cibo, cure mediche e assistenza per altre necessità. L’arruolamento in questo corpo militare di pace durava sei mesi ma molti lo rinnovavano alla scadenza. I campi furono istituiti in tutti gli Stati e anche nelle Hawaii, in Alaska, a Porto Rico e nelle Isole Vergini. Le iscrizioni raggiunsero il picco alla fine del 1935, quando ci furono 500.000 uomini dislocati in 2.600 campi operativi. Tra il 1933 e il 1942 il CCC diede lavoro a circa tre milioni di persone, che potevano anche seguire corsi che andavano dall’alfabetizzazione di base alle competenze professionali e ai corsi universitari.
Poco tempo dopo, verso la metà degli ’40, in Italia Ernesto Rossi scrisse Abolire la miseria, in cui avanzò l’idea di un Esercito del Lavoro, obbligatorio per tutti i giovani, ragazzi e ragazze, al termine degli studi, della durata di due anni, in cambio di solo vitto e alloggio. Questo lavoro non retribuito, a cui si sarebbe accompagnata anche l’istruzione militare, sarebbe dovuto servire per fornire i beni essenziali per i più poveri, a cui non sarebbe stata fatta una elemosina umiliante ma che avrebbero ricevuto nel momento del bisogno quel che si erano guadagnati durante i due anni di lavoro gratuito al servizio dello Stato. Contemporaneamente, i giovani avrebbero sperimentato i valori della solidarietà e dell’interesse collettivo, lavorando al servizio della comunità per la produzione di beni e servizi.
La proposta di Ernesto Rossi, che non è mai stata attuata, aveva in comune con lo spirito del New Deal rooseveltiano il principio che se lo Stato dà allora ha anche il diritto di chiedere, e che una comunità si crea anche attraverso il lavoro svolto nell’interesse collettivo.
Venendo all’oggi, dopo dieci anni di crisi economica, con forti ripercussioni sul lavoro e a livello sociale, l’associazione La Marianna ha presentato una proposta di Esercito del Lavoro, che contiene l’impostazione del New Deal e l’ispirazione di Ernesto Rossi, e che si pone in alternativa a logiche come quella del reddito di cittadinanza, che chiedono a uno Stato senza soldi di tornare ad essere dispensatore di assistenzialismo a cittadini a cui non offre e non chiede nulla.
La proposta, articolata anche in disegno di legge, prevede l’istituzione di un Corpo civile volontario che operi al servizio di enti pubblici nei settori della tutela dell’ambiente, del patrimonio artistico, della manutenzione ordinaria delle scuole. Un Corpo civile, che nulla avrebbe in comune con i fallimentari lavori socialmente utili ma sarebbe organizzato in modo simile al servizio militare, aperto a tutti coloro che hanno almeno 18 anni e non stanno lavorando. La durata del servizio sarebbe di 12 mesi, rinnovabili, e il compenso uguale a quello dei volontari in Ferma prefissata di un anno dell’Esercito Italiano (circa 800 euro al mese), più vitto e alloggio. Lo svolgimento del servizio svolto sarebbe riconosciuto al fine dei concorsi pubblici e sarebbero possibili le convenzioni con Università per il riconoscimento di crediti formativi. Un servizio fondato sul principio di fondo che nulla è dovuto e sulla convinzione che a volte, per creare il nuovo, è bene rivisitare l’antico.