Giornalista di lungo corso, Alessandro Marzo Magno, veneziano, ma ormai residente a Trieste da molti anni, è anche autore di numerosi libri a carattere storico, che guardano alle varie epoche e personaggi da una prospettiva storica naturalmente ma in una chiave più giornalistica, di inchiesta, di reportage, di curiosità, che accademica, tale da rendere i suoi libri, pur nell’estremo rigore della ricerca e nella ricchezza di stimoli, adatti a una lettura di facile presa. Così è con il suo ultimo libro “L’inventore di libri Aldo Manuzio, Venezia e il suo tempo”, edito da Laterza, dedicato alla vita, all’opera e all’epoca di Aldo Manuzio, il primo editore inteso come imprenditore che stampa libri seguendo un progetto editoriale ben definito. Se prima di lui lo stampatore era solo tale, magari anche con scarsa qualità a livello di produzione, l’idea di Manuzio invece era più rigorosa, sia sul piano delle scelte editoriali che su quello formale. E l’idea era, per dirla con parole sue, di stampare “tutto ciò che merita di essere letto”.
Marzo Magno, oggi, mi pare, con tutto quello che si stampa, che accada il contrario di quanto affermato da Manuzio. Ma, ti chiedo, sarebbe possibile mai stampare oggi solo ciò che merita di essere letto? E chi dovrebbe decidere cosa leggere? Qualcuno che bruciava i libri che il cosiddetto popolo non doveva leggere lo sapeva, a quanto pare, e non era una buona cosa. Così come non trovo una buona cosa chi, in nome del politically correct, butta giù le statue di personaggi di epoche passate o, per rimanere nel campo dei libri, vorrebbe cancellare Faulkner perché razzista.
Intanto Aldo Manuzio era un raffinatissimo intellettuale, un signore in grado di conversare in greco antico, di tradurre a vista dal greco al latino, quindi le sue scelte editoriali erano dettate da un bagaglio di conoscenze non comuni. In secondo luogo era anche un imprenditore molto attento al profitto e quindi di sorprendente modernità: anche oggi gli imprenditori dovrebbero sempre unire le capacità di far fruttare un’impresa alla conoscenza. Sottolineo il condizionale. Di sicuro non può essere stabilito a priori cosa meriti di essere letto, né possono valere soltanto logiche economiche, perché altrimenti dovremmo pensare che le poesie della premio Nobel Louise Glück valgano infinitamente meno dei due milioni di copie di “Cotto e mangiato” di Benedetta Parodi. In realtà l’abilità di un editore sta proprio nello stampare best seller per potersi permettere di pubblicare anche libri destinati a vendere poco o pochissimo.
Manuzio era anche uomo di marketing, come tu ben sottolinei nel tuo libro. Oggi direi che il libro, visto l’esorbitante numero di titoli e autori rispetto ai tempi di Manuzio, si vende tanto più quanto dietro ad esso c’è una politica di marketing. Tra Manuzio e oggi c’è stata una qualche età dell’oro in cui il marketing era dettato per lo più dalla sola garanzia data dal nome dell’autore?
Anche oggi alcuni nomi di autori garantiscono un buon risultato di vendite a prescindere dal contenuto, e ovviamente non rivelerei a chi penso nemmeno sotto tortura. Ma proviamo a rovesciare il ragionamento: una solidissima preparazione accademica e un’indubbia capacità di comunicazione bastano a spiegare un fenomeno come quello di Alessandro Barbero? Io mi immagino il professor Barbero che si fa la barba alla mattina e domandandosi davanti allo specchio cosa l’abbia fatto diventare un fenomeno editoriale di quelle dimensioni. Tra l’altro non credo che a questa domanda potrebbe rispondere nemmeno il suo editore, che poi è anche il mio, ovvero il barese Giuseppe Laterza.
Aldo Manuzio è nato in un paesino del basso Lazio, Bassiano, oggi in provincia di Latina, ma ha costruito la sua fama a Venezia. Cosa deve a Bassiano un uomo come Manuzio. O il merito è esclusivo di Venezia? E perché propri Venezia?
È più facile rispondere alle due estremità della domanda: non sappiamo cosa Manuzio debba a Bassiano perché non conosciamo nulla della sua infanzia. Possiamo ipotizzare che gli debba una certa apertura culturale, poiché suo padre aveva rapporti d’affari con qualcuno degli ebrei bassianesi, e che siano stati i signori di Sermoneta e Bassiano, ovvero i principi Caetani, a mandarlo a studiare a Roma, ma sono pure illazioni, perché non lo sappiamo. Rispondere perché Venezia è facile: perché Venezia era la capitale editoriale del Cinquecento, a un certo punto a Venezia si arriveranno a stampare i tre quarti dei libri che si stampavano nell’intera Italia. Ma Aldo Manuzio è stato influenzato anche dagli altri posti dove ha vissuto: Ferrara, dove ha approfondito la conoscenza del greco; Carpi, dov’era precettore dei principi Pio. Manuzio deve molto a molti posti, anche se non siamo in grado di dire in quali proporzioni.
Venezia ed editoria, un binomio che resterà per molti secoli, dei quali il tuo libro dà un’ampia, approfondita e avvincente visione storica. Oggi però Venezia ha perso questo primato, che si è trasferito per lo più a Milano e Torino. Quando è cominciato il ripiegamento? E più in generale, come mai i grandi editori solo in queste due città? E’ solo perché sono città industriali o contano altri fattori?
Si potrebbe dire rispondere che il ripiegamento di Venezia è cominciato nella seconda metà del Cinquecento, quando l’Inquisizione romana è riuscita, dopo decenni di contrasti, a insediarsi pure a Venezia e quindi a far fuggire la fiaccola della libertà di stampa, in precedenza quasi assoluta, verso le Fiandre prima e l’Inghilterra poi. Detto ciò, si è un trattato di un ripiegamento molto lungo: ancora nell’Ottocento il tipografo veneziano Giuseppe Antonelli è stato uno degli editori più importanti d’Europa e un altro editore ottocentesco veneziano, Ferdinando Ongania, è stato il primo a concepire la stampa di libri fotografici di alto livello. Oggi l’editoria è attratta dai grandi centri e dalle reti di relazioni che nei grandi centri si tessono, anche se i mezzi tecnologici consentirebbero di collocare le case editrici nei meravigliosi borghi medievali, come Bassiano, e di rivitalizzarli. Ma sarebbe necessario un salto culturale che non siamo ancora pronti a fare.
Diego Zandel