C’è finalmente un punto fermo a proposito della selezione del candidato o della candidata di centrosinistra alla Sindacatura di Torino. Ora sappiamo che spetterà alla Direzione provinciale del Pd fare una proposta alla coalizione. Tale responsabilità – ora sappiamo – è in capo all’organo deputato del principale partito di coalizione: quel Pd che a Torino raccoglie oltre il 30% dei consensi, a fronte di una coalizione di piccole formazioni personali a minimo tasso di rappresentanza delle quali, nel 2016, nessuna ha raccolto più del 6%.
A chi maneggiasse quel po’ di cultura dei processi politici necessaria alla presa di decisione, questa apparirebbe un’ovvia e tardiva affermazione di normalità. Invece nel discorso pubblico già trovano spazio rodati argomenti “tossici” che, in prospettiva, potrebbero complicare il cammino elettorale: «così il Pd decide il candidato con il metodo dei ‘caminetti’» e «la candidatura che ‘spacca’».
Stiamo al primo argomento e stiamoci con Norberto Bobbio: la democrazia è un metodo condiviso con il quale si prendono decisioni collettive. Per questo sono fondamentali gli organi dei partiti: per dare opportuna legittimazione legal-razionale alle decisioni di interesse generale. Al contrario, la metafora delle decisioni prese «nei caminetti» si riferisce a decisioni di pubblico interesse prese dalle élite più ristrette al riparo da occhi indiscreti, riunite in ambienti informali e intimi come quelli dei “discorsi del caminetto” diffusi via radio da Franklin Delano Roosevelt. Se nelle prossime settimane il centrosinistra torinese aprirà un reale confronto politico sul tema della candidatura, questo è il primo argomento tossico che dovrà sgomberare dal tavolo, perché la legittimazione degli organi democratici di rappresentanza è un caposaldo non rinunciabile del momento decisionale. Deve far riflettere, quindi, l’attecchimento e il radicamento di argomenti populisti, in chiave strumentalmente anti-élite, in una parte importante della sinistra anche cittadina. E quanto sia pervasiva nel magma della cosiddetta proposta civica, vistosamente porosa al gentismo dialettico di matrice grillina.
Ora veniamo al secondo argomento «tossico»: quello del candidato divisivo, che crea una spaccatura. Per paradosso, se evitare la divisività interna fosse un criterio di selezione, il candidato migliore sarebbe l’avversario.
Per meglio dire, l’opzione preferibile sarebbe la rinuncia a qualsiasi candidato a sinistra, come miglior garanzia della massima coesione interna. Ma fuor di paradosso, è ancora un deficit serio di cultura politica voler assumere di legittimare un candidato solo se è il proprio. In questo caso, magari, se espressione o meno degli equilibri politici nazionali. Qui la retorica della quale liberarsi è quella della «spaccatura», perché un partito e un’alleanza di soggetti politici uniti da valori e obiettivi comuni dovrebbe sapere quando duramente contrapporsi – prima della decisione – quanto saldamente ricompattarsi dopo che la decisione è stata democraticamente deliberata.
Una corretta comprensione del problema passa dalla sua corretta rappresentazione. Quindi la sostenibilità delle affermazioni nel dibattito e la narrazione pubblica che ne risulta è determinante. Il centrosinistra ha ancora qualche settimana per non pregiudicare il seguito del cammino con il ricorso ad un linguaggio sbagliato. All’apparente astrattezza dei concetti e alla leggerezza speriamo inconsapevole con i quali sono espressi dai protagonisti, segue sempre un’idea deformata della realtà. Il centrosinistra torinese ha ancora qualche settimana per costruire il problema in modo adeguato: precisamente lì sta parte della sua soluzione.
Cristopher Cepernich