Da Cima Grappa laggiù, a sud-est, si vede bene un panettoncino tutto verde, bislungo da ovest ad est. Di fianco scorre una lingua di carta stagnola e laggiù in fondo un bagliore persistente. Sono il Montello, il Piave (all’inizio della Grande Guerra detto “La” Piave) e la Laguna Veneta.
Nel tragitto verso il Montello non si può non fermarsi ad Asolo.
Siete mai stati ad Asolo?
No?
Andateci, è un gioiellino.
La prima volta mi ci ha portato l’amico Flavio Carretta (instancabile agitatore culturale e musicale) e mi son detto: “Ma perché non ci son venuto prima?”.
Arrivo quindi verso il Montello da nord-ovest, in prossimità del Piave si può cercare l’Osservatorio del Re.
Proseguendo verso sud, a destra della carreggiata troviamo il Monumento agli Arditi.
La zona del Montello si è trovata al centro di tre importanti episodi militari legati alla Grande Guerra: la battaglia di arresto, quando cioè dopo la disfatta di Caporetto l’esercito regio ha realizzato la linea difensiva al di qua del Piave (novembre 1917); poi è stato teatro fondamentale della cd. Battaglia del Solstizio, cioè la grande offensiva austroungarica nel giugno 1918; infine, da qui è partita l’offensiva finale verso Vittorio Veneto alla fine di ottobre 1918.
Oggi il Montello è una dolcissima collina verdeggiante percorsa da stradine che sono chiamate “prese”, ordinatamente coltivata, piacevolmente manutenuta, turisticamente godibile.
Fattorie, villette, trattorie (ho sempre mangiato e bevuto bene e con gusto).
E’ una terra intrisa di sangue.
Prima di giungere al piccolo paese di Nervesa (ribattezzato non a caso “Nervesa della Battaglia”) c’è una strada sterrata sulla sinistra che porta lungo il Piave dove si trova un hangar nel quale sono custoditi in piena efficienza alcuni aeroplani militari dell’epoca.
Sono gli aeroplani simili a quelli con i quali il Barone Rosso e Francesco Baracca hanno scritto pagine indelebili della Storia dell’aviazione: li vedi volare e stai lì col naso all’insù a chiederti quanto coraggio dovevano avere.
Proprio sul Montello a pochi chilometri dall’hangar, sul versante sud, nel cuore della vegetazione, c’è un monumento che ricorda il punto dove cadde – abbattuto – l’aereo di Francesco Baracca.
Ma torniamo a Nervesa.
Il paese fu praticamente raso al suolo.
Poco fuori dal paese verso sud c’è un incrocio con la famosa croce sforacchiata di ferro (l’originale è custodito dentro l’Ossario) menzionata dalla canzone “La Tradotta”: “A Nervesa, a Nervesa c’è una croce / mio fratello l’ho sepolto là…”.
Nel centro di Nervesa c’è un bellissimo museo che si può visitare grazie ai volontari: ricchissimo di materiali, racconta in sostanza ora per ora la battaglia del Solstizio. Contiene, tra i tanti, un reperto prezioso e curioso, che fa riflettere: in una teca, a destra, in basso, c’è un elmetto metallico diverso da tutti gli altri.
E’ un elmetto delle truppe d’assalto tedesche, quelle che sfondarono a Caporetto.
La particolarità è che non è uno dei soliti elmetti tedeschi o austroungarici che tutti abbiamo visto: è come l’elmetto dei Vopos, la Polizia della Repubblica Democratica Tedesca, quella con “compasso e martello”.
Ancora a pochi chilometri sul versante sud in territorio di Giavera del Montello si trova l’ordinatissimo silenzioso cimitero militare inglese.
Emozione e raccoglimento.
Mi ha dato, invece, senso di sgomento e un po’ di disappunto lo stato di manutenzione del grande Sacrario italiano che si trova sul bordo est della collina, nel quale sono custodite circa 10.000 salme, delle quali circa la metà di militi ignoti.
Lo guardavo e lo riguardavo dalla veranda di una trattoria, il sole calava dietro il Montello e la luce era interrotta da quell’angolo di pietra.
Alle mie spalle scorreva il Piave, la cui piena ha aiutato il nostro esercito sia al momento della battaglia di arresto (rendendo impossibile l’inseguimento ulteriore da parte della fiumana vittoriosa tedesca e austroungarica) sia nella battaglia del Solstizio (trascinando via i ponti di barche e quindi tagliando le linee di collegamento e rifornimento alle spalle delle truppe austroungariche giunte d’impeto fin quasi a Giavera).
Lo guardo il Piave e mi dico che mi piacerebbe costeggiarlo tutto a piedi, infilarmi nelle trincee che ci sono ancora in quest’argine e in quell’altro, di là.
Non è un caso, certo non è un caso, se sono stati scritti libri come “Verso la sorgente – A piedi lungo il Piave”, “Piave – Cronache di un fiume sacro”, “Cent’anni a nord-est – Viaggio tra i fantasmi della Guera Granda”.