Ci sono libri che fanno male per la verità che raccontano, una verità naturalmente corroborata da una documentazione ampia e approfondita, e assolutamente non pregiudiziale. È quello che ho provato leggendo il libro del giovane storico torinese Enrico Miletto “Gli italiani di Tito” dal sottotitolo “La zona B del Territorio libero di Trieste e l’emigrazione comunista in Jugoslavia (1947-1954)”, edito da Rubbettino.
Anni in cui era forte la spinta ad andar via. Ho sempre chiesto a mio padre, esule da Fiume: perché ve ne siete andati? La sua risposta, che celava un grande dolore, era sempre quella, nel nostro dialetto: “No se poteva restar!”. Ma la risposta mi è arrivata da questo libro. Non si poteva restare perché l’Istria (e Fiume ancora più, tagliata fuori com’era ormai dalla divisione del territorio giuliano in Zona A e Zona B) stava subendo un’occupazione politico e poliziesca, oltre che militare, che impediva agli italiani, e più in generale, agli oppositori dell’instaurazione comunista jugoslava, la possibilità di condurre in libertà la propria vita pubblica, sociale ed anche intima e personale.
L’attacco alle strutture pubbliche come le scuole con l’insediamento di professori provenienti dall’interno della Jugoslavia, estranei alla tradizionale culturale dei territori, così come ad altre strutture pubbliche dell’amministrazione, quelle comunali e di giustizia, con il boicottaggio quando non l’allontanamento, spesso indotto, dei componenti italiani in favore di estranei spesso privi di qualsiasi preparazione culturale e amministrativa se non quella indotta dal credo ideologico e dall’appartenenza politica, rendeva vano ogni tentativo, anche il più generoso, di resistenza. Altrettanto per quanto riguarda le aziende, con la forzata nazionalizzazione che riduceva i legittimi proprietari, quando non venivano uccisi o costretti all’esilio, a meri dipendenti. Così per le stesse abitazioni private che venivano sottratte ai proprietari “a causa dell’arrivo in città di consistenti nuclei di cittadini jugoslavi provenienti dalle zone interne del Paese, per ospitare i quali si era reso necessario il ricorso a una legislazione mirante a colpire i proprietari di abitazione di origine italiana, che avevano visto aumentare notevolmente gli ordini di sfratto nei loro confronti. Nel solo 1950” scrive Miletto nel suo libro “(queste le cifre proposte dal Clni) nell’intero distretto di Capodistria furono eseguiti 419 sfratti forzosi a danno di cittadini italiani, ai quali si aggiungevano anche le requisizioni parziali di alloggi che prevedevano per i proprietari l’obbligo di ospitare forzatamente all’interno della stessa abitazione persone estranee, versando il 50% della pigione riscossa dagli inquilini ai poteri popolari”.
Ma ciò che più ferisce di queste violenze, commesse da autorità che si davano autonomamente strumenti di legge arbitrari per imporre il loro potere, era il fatto che non stavamo ancora parlando di territori jugoslavi, cioè ceduti alla Jugoslavia, bensì di territori che un accordo a livello internazionale aveva affidato alla semplice amministrazione degli jugoslavi, così come la zona A era stata affidata alla amministrazione angloamericana. La decisione sul destino finale delle zone A e B, del loro futuro, se continuare ad essere territori italiani o diventare jugoslavi, era ancora tutta da prendere. Nel frattempo, sia gli angloamericani da una parte, che gli jugoslavi all’altra, dovevano attenersi scrupolosamente a principi democratici di libertà e uguaglianza tra le popolazioni presenti sui territori. Se gli angloamericani rispettarono quei patti, gli jugoslavi invece, subdolamente da una parte, ma con la sicurezza e la protervia della impunità dall’altra, non hanno esitato a imporre il loro sanguinario tallone di ferro e la manipolazione delle informazioni, in forme di assoluta menzogna da arrivare al punto di criticare, in testi scolastici inerenti la geografia, il fatto che anche la zona A non fosse stata sottoposta all’amministrazione jugoslava con la scusa che si lasciavano “in territorio italiano 80.000 sloveni, sottraendo (in realtà il testo utilizzava la ben più esplicita espressione ‘ci toglieva’) alla Jugoslavia Gorizia ‘grande città slovena e centro economico della Valle del Vipacco” dimenticando gli italiani che, pur costituendo la maggioranza della popolazione nella zona B, passavano ad essa. Erano addirittura arrivati, in un paragrafo dedicato alle minoranze nazionali a farsi beffe della realtà storica di quelle terre, a considerare gli italiani una minoranza “al pari di ungheresi, turchi e valacchi in un territorio nel quale la stragrande maggioranza della popolazione era costituita da croati. Accanto a essi – si leggeva nel piccolo manuale – vivevano ‘piccoli nuclei di italiani’ al cui esodo non veniva dedicato nemmeno un timido riferimento.” In altre informazioni propagandistiche invece gli esuli erano definiti “piccoli capitalisti e sfruttatori del popolo costretti a partire poiché in Jugoslavia non avrebbero potuto continuare a esercitare i loro interessi ai danni dei lavoratori”.
Poi si è visto nei fatti quali interessi hanno fatto ai lavoratori! Per non parlare della persecuzione degli insegnanti, spingendo anche docenti comunisti, tipo Paolo Sema, preside del ginnasio di Pirano, che poi sarebbe pure entrato nel Comitato Centrale del PCI, a scegliere la strada dell’esilio. Scrive a riguardo Enrico Miletto: “Sebbene fosse stata terreno di attrito e di confronto rovente fin dal periodo immediatamente successivo alla fine della guerra, la polemica contro gli insegnanti italiani innescata da parte del potere popolare salì di intensità a ridosso degli anni Cinquanta. A partire da questo periodi apparve chiaro ai dirigenti jugoslavi come la gran parte dei docenti non solo nutrisse una profonda avversione a celebrare la linea culturale e intellettuale imposta dal Pcj, ma iniziasse anche a esprimere in maniera sempre più netta il proprio dissenso verso quel ‘mondo nuovo’ rappresentato dalla Jugoslavia socialista nata al termine della lotta di Liberazione”.
Di fronte a questo mostro che, come una gigantesca piovra, gettava i suoi tentacoli e spandeva il suo inchiostro nero su un intero territorio, precludendo i suoi abitanti ai diritti internazionali che dovevano essere rispettati fino a un trattato definitivo sui confini, nulla poteva il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria che si adoperava per la difesa degli interessi degli italiani sia esodati sia ancora presenti nei territori occupati. Un compito difficile come anche emergeva dai rapporti che arrivavano dai membri del Clni presenti sul territorio, ma anche dalle cronache dei giornalisti italiani che dovevano assistere alle prime elezioni “libere”, bloccati dalle autorità jugoslave al confine dei territori occupati, e fatti entrare solo in un secondo momento. “L’Unità”, per una firma di eccezione come Gianni Rodari, autore nei giorni delle elezioni di numerosi articoli sulla situazione nella Zona B, testimoniò la realtà dei seggi deserti. “A sedere dietro i tavoli elettorali vi erano soltanto i funzionari dell’amministrazione jugoslava intenti a ripetere ai cronisti che la maggior parte aveva già votato durante le prime ore del mattino. Isola, Capodistria e gli altri centri della costa visitati dai giornalisti presentarono uno scenario di finestre serrate, vie e strade deserte, al punto da far constatare a Rodari il fallimento ‘della grande parata titina’”.
Annichilisce, dalla lettura del libro, a dir poco interessante, di Enrico Miletto l’impotenza della popolazione italiana di fronte alla macchina poliziesca dai tratti criminali lasciata per altro impunemente agire dalle forze politiche internazionali che pur dovevano presidiare il rispetto dei patti che avevano sancito le competenze amministrative delle due Zone, ciascuna di esse affidata a due diversi vincitori in un’ottica, però, per entrambi, di rispetto dei diritti delle popolazioni viventi sui rispettivi territori. Il fatto che questo controllo non sia stato fatto, lasciando che le scorribande titine imperversassero ovunque allo scopo di terrorizzare e costringere la popolazione autoctona ad andarsene per favorire un progetto di annessione ben chiaro fin dall’inizio, pone pesanti domande alle quali appaiono insufficienti le risposte che ripongono nella lotta di Liberazione dal nazifascismo ogni giustificazione.
Diego Zandel
Enrico Miletto, Gli italiani di Tito, Rubbettino, pag. 343, €.18,00