Questo termine anglosassone, sino a qualche tempo fa abbastanza poco usato e conosciuto, da alcuni mesi risulta uno dei più gettonati nelle ricerche di Google ed inserito in provvedimenti legislativi emergenziali e post. La traduzione letterale che si attribuisce comunemente è quella di “lavoro agile”, ma è anche appropriato il termine di “lavoro intelligente”.  Di fatto, con questo termine si definisce una nuova tipologia di lavoro, che ha ridefinito i confini della vita lavorativa e privata, anche con sovrapposizioni.

Il legislatore si è occupato di questo tema già nel 2017 con la legge n. 81, rimandando agli accordi di settore tra le parti. La caratteristica dello smart working è la flessibilità, non solo del luogo di lavoro (come lo era per il telelavoro), ma anche dei tempi e dell’organizzazione. Questo ha portato al superamento del concetto novecentesco del controllo da parte del datore di lavoro sulla produttività del lavoratore. Non tutte le tipologie di lavoro possono essere svolte in modalità smart per lo più da casa, essendo, al momento, la tipologia della platea ristretta ai cosiddetti knowledge workers (professionisti, manager, tecnici, docenti, impiegati di concetto), con alto livello di autonomia che permette di svolgere la propria funzione lavorativa anche senza la supervisione costante del datore di lavoro.

In altre parole pare riservato ai lavori più qualificati, intellettuali o pseudo tali. Va da sé che queste tipologie, caratterizzate da un alto indice di istruzione e di specializzazione, siano anche associate ad un più alto reddito percepito, rendendo di fatto doppiamente “fortunati” questi lavoratori, nel periodo di emergenza sanitaria e nel post di ripresa.  Ma allora i cosiddetti “colletti bianchi” diventeranno tutti “colletti on line” – come auspicato da qualcuno –  e apporranno sui loro lavori la sigla wfh – work from home? In effetti per alcune attività lavorative che richiedono concentrazione e creatività, lo smart working offre indubbi vantaggi, potendo essere svolto in tranquillità presso la propria abitazione e non in uffici affollati, a tutto vantaggio della produttività aziendale. Viceversa, le attività che devono essere svolte preventivamente in team, potrebbero essere danneggiate dalla mancanza di confronto e di iterazione con i colleghi e i capi.

In ogni caso per tutte le tipologie di lavoro, la modalità smart offre l’indubbio vantaggio di risparmio del tempo, oltre che dei costi, necessariamente impiegato per il luogo di lavoro. Una sola ora al giorno risparmiata in itinere comporta un risparmio di tempo di oltre un mese lavorativo annuo!  Pure l’inquinamento atmosferico beneficia di tale risparmio di tempo, essendo immesse nell’atmosfera tonnellate di anidride carbonica in meno. Di contro, la scienza sociale sottolinea il fatto che il lavoro svolto in modalità smart incide sulla netta e salutare distinzione tra sfera privata e sfera lavorativa, arrivando di fatto, talvolta, ad aumentare il tempo dedicato al lavoro svolto da casa rispetto a quello svolto in ufficio, anche di parecchie ore al giorno.

Tuttavia le ricerche hanno evidenziato che soprattutto le donne (statisticamente un po’ di più del 50% del totale di lavoro femminile ha le caratteristiche per essere svolto con questa modalità) apprezzano i benefici del lavoro svolto da casa e che comunque anche agli uomini viene dato con lo smart working la possibilità di occuparsi di più dei lavori di casa e dei figli (tant’è che secondo i sondaggi oltre l’80% di chi già lavora con questa modalità vorrebbe continuare a farlo in futuro). Ragionando su questi vantaggi, già si ipotizza quale ulteriore evoluzione dello smart working, il lavoro distribuito, che prevede l’abolizione totale del luogo “ufficio” come ora inteso, con ulteriore diminuzione di costi fissi per le aziende.

Interessante è l’evoluzione dello smart working sotto il profilo giuridico. Dopo l’intervento del legislatore del 2017 con la legge n. 81, anche la normativa di emergenza di contrasto della pandemia si è occupata del tema. Il decreto “Cura Italia” dello scorso marzo ha raccomandato il massimo utilizzo del lavoro “da remoto” (ossia lontano dall’abituale luogo di lavoro) da parte delle imprese, se possibile. Questo si coordina perfettamente con il principio civilistico, che vige nel nostro ordinamento, della tutela della salute del lavoratore da parte del datore di lavoro. Anche la giurisprudenza ha dato in materia un importante segnale evolutivo. Una recente pronuncia del Tribunale di Grosseto, seppure inserita in un contesto di contrasto alla discriminazione, pare aver riconosciuto il diritto soggettivo del lavoratore a svolgere la propria mansione in modalità smart, essendoci i presupposti per farlo ed essendo stata concessa ad altri colleghi.

Il recente decreto “Rilancio “di questo mese di maggio ha riconosciuto il diritto soggettivo – seppur limitato alla fine del periodo emergenziale e con qualche paletto – allo smart working  (se compatibile con le mansioni svolte) al genitore con figli di età minore di 14 anni, anche in mancanza di accordi di settore.  Questo permette a circa 51% dei tre milioni di madri lavoratrici con figli piccoli, di conciliare i tempi di vita familiare e di lavoro.

Legittimo il sollecito ad incrementare la normativa in tema di smart working proveniente dal mondo sindacale, vista l’inadeguatezza della legge del 2017 rispetto ai nuovi scenari emergenziali e post. Forse senza troppa fretta, per non oberare con altre incombenze le aziende, in questo delicato momento di tentativo di ritorno parziale alla normalità.  Si è avuta l’impressione che nei festeggiamenti per lo più virtuali della Festa del Lavoro, in questo anno di spiacevoli imprevisti, l’accento sia stato posto non solo sui diritti ma anche sui doveri, pilastro fondamentale della ripresa economica del Paese.

Liliana Perrone

Liliana Perrone

Consulente legale di Intesa Sanpaolo

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