Stiamo entrando nell’era di una società parassitaria di massa?
Stiamo diventando un Paese fondato sui sussidi e su una cultura che vede al centro delle nostre vite uno Stato erogatore di risorse finanziarie per tenere i suoi cittadini, chi più chi meno, alle soglie della sopravvivenza?
Il Decreto Rilancio ha scatenato questi dubbi, questi angoscianti interrogativi.
Ha, soprattutto, creato allarme nelle nostre comunità un dato specifico: non avremo mai più uno stock di risorse finanziarie così rilevante da investire nel Paese (55 miliardi di euro più le quote dei fondi europei che sono in corso di deliberazione).
Le abbiamo davvero valorizzate al meglio?
Ci siamo limitati a “tamponare” i bisogni dell’oggi, della immediatezza post Covid, oppure ne abbiamo approfittato per impostare e allocare parte di questo “tesoretto” per il futuro dell’Italia?
Un dato ci aiuta a capire il razionale dal quale sono partite le decisioni di spesa del nostro attuale governo: alla pubblica istruzione, alla scuola, sono stati destinati 1,5 miliardi di euro, meno del 3% del totale delle risorse deliberate con il Decreto Rilancio.
La stragrande maggioranza del denaro investito è dedicata alla spesa corrente, per carità, prioritaria se arrivasse davvero nelle tasche dei bisognosi (imprese ed individui) subito e in modo rilevante.
Troppo poco però, anzi pochissimo, è allocato alle spese di investimento.
L’erogazione dei sussidi era necessaria ma tale fase deve avere necessariamente una durata limitata.
L’Italia tornerà a crescere e, soltanto in questo modo, a sperare di sostenere il peso dell’immane debito pubblico che si è ulteriormente incrementato, se saranno rilanciati subito investimenti, competenze, meritocrazia, ricerca e concorrenza.
In sintesi estrema – come ha giustamente evidenziato Ferruccio de Bortoli – “Se si avrà cura del capitale umano”.
Il Decreto Rilancio non pensa invece al futuro, non propone un progetto di ricostruzione del Paese: non ci fa sognare una nuova Italia in cui ci farebbe piacere vivere e lavorare.
Il Governo ha pensato all’oggi (magari anche giustamente) ma si è dimenticato del domani, del futuro dei nostri figli e nipoti.
L’Italia, per rilanciarsi, deve puntare su un nuovo paradigma di valori e di obiettivi, altrimenti a pagare il conto di questa enorme manovra finanziaria, conseguente all’emergenza del Covid-19, saranno esclusivamente i giovani.
Questo nuovo paradigma deve essere basato su uno scenario esattamente opposto a quella di una società di sussidiati!
Deve puntare su una meritocrazia sentita e vissuta; sull’attitudine imprenditoriale, difesa come valore e non criminalizzata da vecchi pregiudizi, ad assumersi rischi per sviluppare nuove e competitive intraprese industriali; sulla sburocratizzazione di una Pubblica Amministrazione che costituisce ormai un vero e proprio tappo alla crescita e, oggi, alla ripartenza; su una nuova visione politica, giuridica ed economica della nozione di Beni Comuni attraverso una nuova forma di collaborazione tra il pubblico e il privato.
Mentre combattiamo la povertà e cerchiamo di arginare le nuove, grandi, povertà sorte dall’emergenza in essere, non dobbiamo assolutamente dimenticarci di produrre ricchezza.
Il concentrare tutte le risorse disponibili, come ha deciso il Decreto Rilancio, sulla spesa corrente è stato un errore: per ripartire davvero servono investimenti, cioè cantieri, non solo edili, pubblici e privati.
“Gli italiani hanno bisogno di un lavoro non di un sostegno” ha scritto il nuovo direttore de La Stampa Massimo Giannini.
Purtroppo questo tipo di decisioni si origina da una lettura distorta della realtà, quella che i neuroscienziati chiamano “Bias Cognitivo”.
Se davvero volessimo occuparci del futuro dei nostri discendenti, dovremmo guardare non solo al PIL e agli altri indici macroeconomici dell’oggi, ma anche, come ha scritto recentemente Enrico Giovannini (Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), “A cosa le nostre decisioni comportano per l’andamento dei diversi stock di capitale (non solo quindi economico ma anche umano, sociale e ambientale) da cui il benessere, in ultima analisi, dipende”.
Se le nostre istituzioni dovessero essere valutate sotto il profilo della giustizia intergenerazionale – ha scritto Giovannini – sarebbero bocciate: non si possono infatti usare oggi le risorse che spetterebbero alle generazioni future per sostenere attività che, tra l’altro inquinando, distruggono capitale naturale.
Bisognerebbe invece investire massicciamente nella formazione per compensare la perdita di conoscenze, e cioè di capitale umano, che la disoccupazione determina; in più sostenere adeguatamente il terzo settore che, anche attraverso il volontariato, accresce il capitale sociale del paese.
Insomma, bisognerebbe adottare una strategia visionaria e una conseguente politica economica completamente diverse da quella adottata dall’attuale Governo.
Ferruccio de Bortoli ha scritto un autentico grido di dolore su questi temi, lanciando un appello all’imprenditoria privata italiana, quella sana, a quella che vuole competere nel mondo in modo legalitario e meritocratico, un appello a farsi carico di questo grande ma non più rinviabile progetto di rifondazione del nostro Paese.
Non lo abbiamo letto come un “armiamoci e partite” di mussoliniana memoria, ma come un forte richiamo alle capacità e alle responsabilità del mondo dell’imprenditoria privata che deve, in un momento così delicato ma decisivo per le sorti del nostro futuro, assumere un ruolo di guida del Paese, arginando il velleitarismo anche populista di uno Stato sociale che garantisca a tutti, a prescindere dal posto di lavoro, un reddito di cittadinanza o un reddito di emergenza.
La nostra rivista ha pubblicato in queste settimane un interessante articolo del prof. Alberto Dolci che ha analizzato i meccanismi non virtuosi della cooptazione vigente nel nostro Paese per le nuove classi dirigenti imprenditoriali e politiche.
Condivido il suo pensiero: dobbiamo ripartire anche di lì.
Dalla costruzione di una leadership imprenditoriale e politica in grado di gestire la complessità della nostra società, non resistendo in modo egoistico o conservatore, ma aprendosi all’innovazione con una visione moderna e solidale della società e di un nuovo equilibrio della coesione sociale, con meno disuguaglianze.
Il capitale umano vale di più del capitale finanziario e il nostro sistema scolastico non merita “l’elemosina” di 1,5 miliardi di euro su 55 miliardi di risorse erogate.
“Se non ora quando? – ha scritto Massimo Giannini.
È il momento di rifondare il sistema paese non quello di diffondere a pioggia, a tutti, sussidi per loro natura transitori e a termine.
In caso contrario, finiti quelli, cosa faremo?
Riccardo Rossotto