Da un lato, mi ha sempre angosciato!
Da un altro affascinato!
Ho sempre ammirato chi, dopo una sconfitta, sapeva ammetterla, riconoscendo il valore del vincitore.
Mi hanno sempre, invece, irritato gli sconfitti che cercavano alibi, scuse, motivi del perché non erano riusciti a superare l’avversario.
Sto parlando, ovviamente, del grande tema della sconfitta, non solo sportiva, che ha sempre animato il dibattito tra gli esseri umani.
E’ una materia delicata, da trattare con attenzione, rispetto e grande prudenza.
E’ facile sbrigarsela con un formale e poco sentito “è andata male”, denso di voglie di rimozione.
Il sentimento della sconfitta, dell’essere stato perdente, è sfaccettato, misterioso, pieno di sorprese anche educative.
Ciascuno di noi, ogni volta che “naufraga” a seguito di insuccessi, sentimentali, amicali, professionali o sportivi, si trova di fronte ad un bivio: da una parte ha la strada della rimozione, dell’archiviazione, dell’addebitare ad altri o al fato le proprie sconfitte.
Dall’altro lato, ha l’opportunità di “entrare dentro” a quanto accaduto. Con sofferenza e a volte grande dolore, investigando sulle cause che ci hanno fatto perdere un amore, un amico, una partita di calcio, un confronto professionale.
E’ difficile ma quanto mai utile riuscire, all’inizio con grandi sofferenze ma poi con il cinismo di un metodo acquisito, a mettere “le mani nel fango” del perché ci siamo lasciati andare, abbiamo sotto valutato il da farsi, abbiamo sovrastimato le nostre capacità.
E’ sempre difficilissimo guardarsi davanti allo specchio ammettendo di aver fatto un errore: di non esserci impegnati al massimo, di non aver investito il meglio di noi stessi in quell’evento.
Un percorso però, e lo dico per faticosa esperienza diretta, estremamente utile, formativo e rasserenante. Aiuta a metabolizzare, esorcizzandola, una parentesi negativa che forse, vista l’esperienza, in futuro potremo anche evitare di ripetere.
Mi ha piacevolmente costretto a riparlare di questo tema, da sempre considerato stimolante, la lettura della Graphic Novel (chissà perché dobbiamo scriverla in inglese?) di Roberto Laucello, dal titolo “Un uomo solo … al fondo” (Renoir Comis, 2019) dedicata alla vita di Luigi Malabrocca, classe 1920 (avrebbe quest’anno compiuto 100 anni ma ci ha lasciati 14 anni fa, nel 2006) detto il Luisin.
Il ciclista che, per una serie di ragioni che vi svelerò fra poco, passò alla storia come “l’ultimo”, la maglia nera del Giro d’Italia.
Ricordo, da bambino, che quando giocavo sulla sabbia al mare con le biglie, con le figurine dei ciclisti famosi, mia madre, Mercedes, grande sportiva e appassionata praticante della bicicletta, mi citava spesso il nome di questo “non campione” dei suoi tempi aggiungendo “Ricordati Riccardo della lezione di Malabrocca: chi l’ha detto che nella vita bisogna sempre arrivare primi?”
Oggi Malabrocca è tornato a fare notizia.
E’ diventato protagonista di due pièce teatrali scritte da Matteo Caccia (La maglia nera) e da Riccardo Ballerini e Massimiliano Gracili (Quando l’ultimo vinceva).
Luca Argentero e Carlo Lucarelli gli hanno, invece, dedicato una intera puntata delle loro emozionanti narrazioni sui grandi personaggi dello sport del passato.
Il fascino misterioso del mondo visto dagli sconfitti: questo è lo stuzzicante tema che emerge da queste interpretazioni, varie e diverse, sulla vita e sulle avventure sportive di questo piemontese verace di Tortona, ultimo di sette fratelli (quattro morti molti giovani tra le trincee del Carso e l’epidemia della Spagnola).
Oggi la nipote, Serena Malabrocca, ne porta in giro per l’Italia il ricordo e la memoria sottolineando come “Quando ricordo la sua avventura tra i ragazzi che mi ascoltano vedo sorrisi e a volte anche occhi lucidi. Si crea qualcosa di bello. La sua vita racchiude un insegnamento semplice: cambiare prospettiva, guardare le cose dal fondo, con leggerezza, può riservare sorprese. E’ un modo per risolvere problemi complicati o persino per trovare la felicità”.
Il punto è proprio questo: si può essere felici anche arrivando ultimi?
In una società estremamente competitiva come quella che ci siamo creati, il quesito sembrerebbe retorico, quasi provocatorio.
Invece, rileggendo l’avventura sportiva di Luigi Malabrocca, se ne ricava un senso, sì, proprio quel “senso della vita” cantato da Vasco Rossi, da non sottovalutare.
“Nel buio delle retrovie, dall’oscurità delle cronache, sul fondo delle classifiche, Malabrocca si illuminò di nero: decise di pedalare piano, più piano, il più piano possibile. Voleva arrivare al traguardo, ma dopo tutti gli altri” si legge nell’introduzione di Marco Pastonesi della novella grafica di Roberto Laucello.
Perché “l’ultimo è il più fragile, debole, povero, vulnerabile, sfortunato, dunque il più umano, e tutti, ma proprio tutti, rischiano di commuoversi, intenerirsi, impietosirsi fino a soccorrerlo, sostenerlo, aiutarlo, perché in lui si specchiano, si riflettono, si identificano”
La storia sportiva di Luisin inizia nel 1946, l’anno della ripresa del Giro d’Italia dopo la sospensione bellica di ben 5 anni.
Nel ’40 aveva vinto un giovanissimo, mingherlino, sempre piemontese, alto e lungo, all’apparenza senza un tono muscolare adeguato.
Evidentemente però con il fisico giusto per insegnare a tutto il mondo cosa volesse dire essere Fausto Coppi.
Il giro del ’46 attraversò una Italia distrutta dalla guerra che stava iniziando la faticosa ripresa che l’avrebbe portata al boom della fine degli anni ’50.
Il dualismo tra Coppi e Bartali appassionava gli italiani che tornavano a sorridere quasi di più della scelta tra Monarchia e Repubblica.
“Malabrocca è un ragazzo sveglio e si dà da fare – scrive Roberto Aucello – consapevole di non poter competere per i primi posti in classifica generale, si concentra sui traguardi volanti, gli inutili sprint sparsi nella prima parte del percorso per vivacizzare la gara. Ogni vittoria parziale è un piccolo premio in denaro, che Luisin da buon padre di famiglia spedisce alla moglie Ninfa. Ma quando un giorno per caso si ritrova ultimo a fine tappa, scopre la miniera d’oro: i tifosi e gli sponsor per solidarietà, gli offrono mance in denaro, salumi, bottiglie d’olio e altri tesori”.
Negli anni ’90 Malabrocca, si confidò con un amico scrittore che gli avrebbe dedicato una biografia, Benito Massi, che scrisse: “Nacque così la leggenda della maglia nera, il personaggio Malabrocca, il quale astutamente sarebbe stato al gioco non venendo tuttavia mai meno ai suoi compiti di gregario e di sprinter di razza”.
Luisin vince anche qualche cosa di importante come la Parigi-Nantes. Per due volte diventò campione italiano di ciclo-cross.
Ma volete comparare queste gioie effimere con l’indossare la seconda maglia ufficiale del Giro d’Italia? Non riesco, con Bartali e Coppi, ad ambire alla maglia rosa, bene, pensò Luisin, punto a prendermi quella nera.
Gli appassionati di ciclismo sanno bene che arrivare ultimo in una grande corsa a tappe non è assolutamente un’impresa semplice; non basta andare piano, più piano degli altri, serve una precisione quasi chirurgica: “Chi si attarda troppo finisce squalificato perché “fuori tempo massimo”. Malabrocca al polso di orologi ne ha due, uno sul braccio destro e uno su quello sinistro, per non sbagliare i calcoli. Nel ’46 conquista la prima maglia nera nella storia del Giro, a 4 ore, 9 minuti e 44 secondi dal vincitore Gino Bartali. Nel 1947 fa il bis: vince la maglia nera con un distacco di 5 ore, 52 minuti e 20 secondi da Fausto Coppi, il suo mito, la maglia rosa”.
Il “primato”…. dell’ultimo posto è sempre più conteso: è difficile tenere il controllo delle retrovie.
Ormai Malabrocca guadagna almeno quanto i campioni finiti sotto il podio. Nel 1949, al Giro, viene considerato ed applaudito dal pubblico come una dei campioni più importanti della manifestazione: “Anche quest’anno – dice in una intervista alla Gazzetta dello Sport – punto ad una maglia, rosa o nera. Ma visto che la prima la indosserà Fausto, non mi resta che inseguire la seconda”
Poi la parentesi felice finì. La maglia nera perse di prestigio e nel 1952 fu abolita.
L’ultima fu indossata dal veneto Giovanni Pinarello, quello che poi, con i soldi guadagnati con la maglia nera, realizzò una eccellenza del made in Italy: una officina di biciclette considerate tra le migliori nel mondo.
La splendida storia dei perdenti, come dicevo all’inizio, ha sempre stimolato letterati e filosofi.
Proprio in questi mesi è stata pubblicata una lettera, rimasta segreta fino ad oggi, che Arthur Rimbaud scrisse nel 1874 all’amico Jules Andrieu, ex comunardo, amico di Verlaine.
Erano passati quattro anni dalla fine della tragica ma indimenticabile esperienza della Comune di Parigi e Rimbaud scriveva di avere un progetto in testa (aveva appena 19 anni) per pubblicare una storia dell’umanità vista dalla parte dei perdenti. Ancora scottato dal sogno infranto con la carneficina di quattro anni prima, l’autore auspicava di poter riscrivere la Storia dal punto di vista dei perdenti e degli inganni perpetrati ai loro danni.
La lettera, in lingua italiana, figura nel volume delle Opere edito da Marsilio e curato da Olivier Bivort con la traduzione di Ornella Tajani.
Mi sembra la miglior dimostrazione che il fascino della vita vissuta dal basso, dai posti riservati agli ultimi e agli sconfitti, abbia attraversato tutte le generazioni degli autori interessati antropologicamente a capire meglio il senso della nostra vita e ad immaginare, magari, qualche farmaco per curare le nostre angosce esistenziali sorte ogni volta dopo una sconfitta.
Malabrocca sfatò la gogna dell’ultimo arrivato, creando la leggenda di una “splendida storia di un perdente”.
Grazie Luisin: onore ai vinti dunque ma anche tanta gratitudine a loro per farci sentire meno inadeguati e fragili.
Riccardo Rossotto