A Torino passo ogni tanto di fronte ad una palestra di roccia “very cool” che svetta all’angolo di un quadrilatero che ha, ai suoi vertici, un collegio universitario, un cubo nero, sede di una multinazionale super nerd Made in Turin e un museo di arte contemporanea.
I nerd forniscono al mondo dati digitali su un numero sterminato di sport, il museo è la Fondazione Sandretto: polo d’arte contemporanea custodito da un cubo bianco creato dall’architetto Claudio Silvestrin (quello che aveva immaginato gli store Armani nel passaggio tra gli anni ’90 e il 2000). Prima lì c’era la Fergat: stabilimento specializzato in lamiera in ferro che ha prodotto ruote di veicoli di ogni genere che hanno percorso le strade di tutto il mondo.
CINQUANTA SFUMATURE DI TORINO
Quel quadrilatero sembra la “tavola periodica degli elementi” di una Torino che cambia. Ci sono le fabbriche che diventano altro, c’è l’azienda digitale sconosciuta ai più che ha successo nel mondo, c’è la città universitaria che fabbrica competenze e c’è quella palestra di roccia, modernissima, che tenta di raggiungere il cielo aggrappandosi a mille appigli colorati.
Eppure, nonostante tutto questo, la città sembra immobile in questo inizio anno. Una città illuminata da un sole malato a cui fa velo la coltre grigiogiallastra dello smog.
Per capire di più (e individuare qualche appiglio economico, politico, sociale e culturale) abbiamo catturato Alessandro Bollo, brillante direttore del Polo del ‘900. Con lui ci siamo regalati una “flanerie” ragionando su alcuni decenni che sono alle nostre spalle.
Abbiamo iniziato dal 1949, l’anno in cui nasceva L’Incontro. Era l’anno che si lasciava alle spalle il primo dopoguerra ed aveva di fronte un orizzonte intriso di attivismo e speranza.
Bollo è giovane (è un quasi cinquantenne “a sua insaputa”) e simpatico, ha una mente agile e nessuna traccia del retrogusto saccente che ti aspetteresti da chi è stato definito: “…uno tra i maggiori esperti internazionali di audience development e audience engagement…”.
1949
D. 1949. Com’è quell’anno visto da una persona nata nel 1972 e quindi da un quarantenne quasi cinquantenne di oggi?
R. Il 1949 apre un decennio pazzesco nell’immaginario italiano: il decennio della ricostruzione. C’è un’Italia che arriva distrutta nelle infrastrutture, nel tessuto sociale, nei valori. Fiaccata dal ventennio e dalla guerra. Però un’Italia con tutti i germi positivi e gli anticorpi che la resistenza aveva prodotto.
Quelli sono gli anni del percorso della costituzione da un lato e del Piano Marshall dall’altro che è un elemento dirimente: qualcosa di estremamente lontano rispetto all’oggi in cui abbiamo un approccio neoliberista ai grandi problemi strutturali.
RICOMINCIARE
E’ stato proprio l’elemento strutturale a rimettere in piedi un Paese che sentiva la voglia di mettersi in gioco. Allora c’era anche una predisposizione psicologica ed esistenziale (mi sento libero, mi esprimo, spero, creo, costruisco, posso) a nutrire quello che avremmo poi chiamato “il miracolo economico italiano”. Quel boom di quattro anni in cui il Pil cresceva del 6/7% annuo (dirlo adesso sembra fantascienza visto che passiamo dallo 0,1 allo 0,2 con grande soddisfazione)
Quella roba lì, quel “booster” economico, sociale e culturale ha creato un balzo enorme, molto veloce, fin troppo veloce per un Paese che non era pronto per quel tipo di salto. Quindi quel 1949 si affaccia su un paese che prova, da adolescente, a diventare adulto ma in realtà non riesce a modernizzarsi del tutto.
Quella velocizzazione del percorso dell’industrializzazione s’innestava su un paese che era ancora agricolo, familiare, arcaico. Un paese “antico” per tanti versi anche dal punto di vista dell’infrastruttura mentale e sociale, questo ha determinato in quella fase degli elementi di criticità e debolezza che ci siamo portati avanti e che sono esplosi alla fine del boom.
DUE VELOCITA’
D. Qual è stato il lato oscuro del boom?
R. Durante “il miracolo” si vedeva solo il bello, le famiglie erano contente, c’era l’avvio di una società che sarebbe diventata consumistica, ecc… La sensazione era che ogni nuovo giorno sarebbe stato più ricco di opportunità rispetto al giorno precedente.
Quella crescita economica, però, non si è portata dietro la crescita sociale. Il welfare, che avrebbe dovuto accompagnare la trasformazione per mitigare l’impatto di una crescita così forte, non fu all’altezza della grande spinta economica. La grande differenza nord e sud nasce già in quegli anni come anche la grande differenza tra città e campagna.
E la gestione delle immigrazioni e dei flussi conseguenti non risultò adeguata. Tutto questo “non risolto” sarebbe esploso nella crisi degli anni ’60 e con l’austerity degli anni ’70.
Da una parte c’era un’Italia che era andata velocissima, dall’altra c’era un’altra Italia non sorretta da adeguate politiche strutturali. E questo sebbene se ne parlasse già negli anni ’60.
Pensiamo solo al tema della casa: si sarebbe dovuto dare case decenti alle persone, gestire le differenze sociali, gestire una “nuova” classe di mondo operaio e di piccolo ceto medio che trovava finalmente la possibilità di avere la sua casa, la cucina, il suo frigo, il suo pollo, ecc…
Le due diverse velocità dell’Italia hanno creato gli scompensi una volta finita l’ondata della piena occupazione in cui i salari crescevano ma meno di quanto crescesse la produzione (era proprio questo a consentire quelle performances pazzesche).
Quando emersero i primi problemi legati alla sostenibilità e all’ambiente non si era preparati ad affrontare i fenomeni.
NANI, GIGANTI, PROMESSE
D. Gigante economico ma nano politico quell’Italia?
R. No non lo penso, c’è quel detto: “Molto poco se mi giudico ma molto se mi comparo”. Chiamare nana quella classe dirigente è una valutazione improvvida che non mi sento di fare. Ci sono stati comunque dei giganti in quegli anni che hanno portato l’Italia fuori dal guado. E’ chiaro che poi la fase costituente non ha avuto una classe dirigente che ha mantenuto le promesse.
Gli anni ’50 sono stati anni di grandi promesse, non solo dal punto di vista economico ma dal punto di vista della tenuta sociale, della crescita culturale, della capacità di garantire un pluralismo che garantisse libertà e quant’altro.
Gli anni ’60 sono stati in parte anche un tradimento di quelle promesse perchè le grandi trasformazioni non si sono fatte.
IL ‘68
D. Il ‘68 può essere l’urlo di quelle promesse mancate?
R. Il ‘68 secondo me è una cosa complicatissima. C’è una lettura che è quella del colpo di rasoio, cioè una discontinuità tra il prima e il dopo, c’era una generazione che sotto la cenere riteneva sempre più inaccettabile il punto di vista della vecchia generazione e, in generale, l’autoritarismo. Quel ’68 fu un urlo molto forte nei confronti di una società sempre più autoritaria e di una società che faceva sempre di più difficoltà a risultare moderna.
Da un lato, quindi, c’è la lettura del ’68 come urlo e colpo di rasoio e conflitto intergenerazionale, ci si trova di fronte ad una enorme distanza intergenerazionale che produce conflitto e quindi i figli provano, anche legittimamente, ad uccidere i padri. Quei ragazzi intrisi di utopia semmai erano più interessati ai nonni che non ai padri (ai nonni che avevano fatto la resistenza).
Ma io credo che il ’68 nasca prima, almeno cinque anni prima, e continui anche dopo, al Polo del ‘900 ne abbiamo parlato tanto quest’anno.
DUE IMMAGINARI
Sintetizzando il ’68 rischia di essere polarizzato tra due immaginari:
- La mitizzazione tout court, per cui qualsiasi cosa viene ricordata come strabiliante e magica (Bertolucci, i giovani al potere la fantasia, la rivoluzione culturale).
-
Il femminismo, nonostante il ’68 sia un movimento prevalentemente maschile ha liberato un’energia molto forte legata al protagonismo femminile.
Il ’70 è il decennio delle donne. Questo è molto interessante perchè quel clima, quella spinta, quella voglia di “liberazione” io li farei reagire con l’oggi. Questo potrebbe aprire un nuovo protagonismo con una consapevolezza diversa.
DUE EDONISMI
C’era Edgar Morin che diceva: “Gli anni ’70 sono stati gli anni dell’edonismo dell’essere e gli anni ’80 quelli dell’edonismo dell’avere“.
E’ vero che i ‘70 sono stati letti come un decennio del “noi” (i gruppi, il collettivismo, l’associazionismo) ma sono stati anche anni della scoperta dell’io e del super io. Quindi gli anni in cui diventava possibile rivendicare delle libertà e un’autonomia che prima non era concessa.
Quell’io diventava poi un “noi”: un io plurale quando c’era da combattere, da andare insieme agli operai, ecc…
LA PREVALENZA DEL DOVERE
Finisce presto “l’ora d’aria” di Alessandro Bollo trafitto, come un San Sebastiano 4.0, dagli impegni in agenda. Lo riconsegniamo al Polo del ‘900, massiccia costruzione dello Juvarra (l’archistar seicentesca che ha creato la Torino barocca) nata come quartiere militare.
Una micro-città di mattoni che il tempo ha reso opachi e che riacquisterà presto la sua lucentezza originaria grazie ad un poderoso restauro.
Nel frattempo quei quartieri militari sono diventati il più grande centro culturale italiano dedicato al ‘900. Una specie di caserma smilitarizzata che ha 22 enti culturali come partner, 900 fondi archivistici, 9.000 metri lineari di archivi e biblioteche e un esercito di 12.700 studenti coinvolti e 67.400 presenze annue.
Bollo ci lascia con una promessa: ripartire dagli anni ’70, magari approfondendo la frase di Edgar Morin per arrivare fino ad oggi e, agenda permettendo, anche oltre.
Nel frattempo si è fatta notte. E’ quello il momento in cui, per un attimo, la città smette di avere paura e di rimpiangere il passato. Torino, subito dopo il tramonto, a volte può anche immaginare di essere Boston e non Detroit.
A volte, non sempre. E forse è proprio questo che la rende invidiosasospettosa nei confronti di Milano: la “sorella ricca.
Gabriele Isaia