Negli ultimissimi mesi due libri si sono interessati alla figura controversa di un comunista triestino, Vittorio Vidali. Si tratta di “La zia Irene e l’anarchico Tresca” di Enrico Deaglio, edito da Sellerio, e di “Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista (1916-56)”, di Patrick Karlsen, edito da Il Mulino.
Un libro “Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista (1916-56)” che non lascia spazio alla leggenda, attenendosi scrupolosamente ai fatti, e ce n’era bisogno perché, come scrive lo stesso Karlsen in una nota: “La disciplina vorrebbe che al genere della memorialistica ci si accosti con filtro critico e specifiche metodologie di analisi, in grado di cogliere sia le potenzialità sia le ambiguità inerenti all’oggetto. Se nei confronti della memorialistica comunista tale atteggiamento critico è stato spesso e correttamente applicato dalla storiografia, non si può dire lo stesso per la memorialistica trockista-libertaria (…) nei confronti della quale la soglia di ‘indulgenza’ e preventiva disponibilità ad accordare attendibilità è stata in generale assai più alta”.
Detto questo, e al netto delle leggende (oltre all’omicidio di Mella, le fu affibbiato pure quello della sua compagna Tina Modotti, già donna del Mella stesso, quella di Tresca e, poi, in Spagna, durante la guerra civile, di molti anarchici, tra cui Camillo Berneri e così via), resta il fatto che Vidali comunque ha partecipato ad azioni di killeraggio, uccidendo e organizzando attentati alla persona là dove il potere di Stalin veniva messo in discussione o pericolo. E’ interessante un aspetto che forse sfugge ai più, ma che mi pare il saggio di Karlsen chiarisca: Vidali non era stalinista perché servo del dittatore, bensì perché autonomamente credeva che quella di Stalin e dell’Unione Sovietica fosse l’unica strada per il comunismo di affermarsi nel mondo, per cui ogni altro movimento politico, pur a sinistra, come quelli trozkista, anarchico, socialista, erano considerati pericolosamente deviazionisti e, oggettivamente, se non al soldo della borghesia e della reazione, funzionali ad esse. Certo, c’entrava, per Vidali, anche il pane e il companatico di mezzo, perché dopo la fuga dall’Italia nel 1923 e approdato a New York, dopo i due mesi vissuti allo sbando, sui marciapiedi della metropoli, avrebbe trovato, grazie al PCd’I una sistemazione economica. Come si legge nel libro, infatti, in seguito alla chiamata della sezione italiana del Worker’s Party americano che lo avrebbe fatto full-time functionary, lo stesso Vidali scrisse: “venne a cambiare i miei piani e forse l’intero corso della mia vita”.
Uomo d’azione, inquieto, impaziente, violento, incapace di pause, e certamente favorito dalle turbolenze dell’epoca contraddistinte dal montare del fascismo e della repressione (già giovanissimo, a Trieste e dintorni, era stato protagonista di assalti, pestaggi, scontri armati, che poi, con la precipitosa fuga da un porto istriano a bordo di una carbonera, lo avrebbero portato all’avventura un po’ in tutto il mondo) Vittorio Vidali aveva trovato un ruolo che gli calzava benissimo. Tanto più che l’epoca era quella primigenia della Rivoluzione di Ottobre, con le speranze che aveva aperto nel mondo, prima che l’Unione Sovietica diventasse quello stato di polizia, violento, negatore non solo dei diritti, ma della persona umana, che avrebbe condotto alla morte milioni di persone che si opponevano o, semplicemente, criticavano o solo erano sospettati di criticare, sia i piani che il potere di Stalin. Di questa ferocia poco o solo in parte doveva arrivare a Vidali, perché, quando nel 1947 lasciò il Messico per l’Italia, dove lo chiamava il drammatico scontro con il nazionalismo dei comunisti sloveni e le ambizioni di Tito che pretendevano – come poi in grandissima parte hanno ottenuto con l’Istria e Fiume – l’annessione di Trieste e passò per Mosca, dove incontrò “invecchiata ma sopravvissuta al Terrore” Helena Stasova, la donna della segreteria di Stalin che aveva sempre avuto un occhio di riguardo per lui, leggiamo: “Nel corso dell’incontro, avrebbe ricordato di aver appreso dalla sua tutrice ‘episodi e fatti incredibili, terrificanti’”.
Forse, proprio per queste degenerazioni che poi saranno proprie di tutti i regimi comunisti, nessuno escluso, nell’immaginario collettivo uomini come Vidali, seppur idealisti, con il loro comportamento violento, l’intolleranza per le altrui posizioni anche in ambiti socialisti non solo opposti, hanno contribuito a fare del comunismo – contrariamente a Marx e alle teorie di liberazione dell’uomo verso cui tendevano attraverso un percorso lunghissimo – quella ideologia di oppressione, di paura, di intolleranza, morte e violenza, che l’ha caratterizzato e definitivamente consegnato alla storia, così uccidendo per sempre le speranze di cui all’origine era portatore.
Questa discrasia tra speranze e realtà lo si è toccato con mano anche leggendo l’ultima parte del libro di Karlsen che racconta, come ho già detto, i difficili rapporti tra i comunisti italiani e i comunisti sloveni per l’annessione di Trieste alla Jugoslavia, alla quale Vidali si opponeva non solo dopo l’espulsione di Tito dal Cominform, cioè dai paesi alleati con Mosca, ma ben da prima, fin dal 1944, quando erano ormai chiare le mire espansioniste del dittatore jugoslavo che, tra l’altro, rispetto a Stalin era riuscito a fare in modo di godere di maggior credito presso le cancellerie occidentali, credito che poi, aggiungo io, si rivelò deleterio per le popolazioni italiane del confine orientale, passate alla decimazione con le foibe e costrette all’esodo. Scontro interessante quello tra comunisti della Venezia Giulia, non solo per le conseguenze che sappiamo con l’arresto e la cayenna di Goli Otok, da parte di Tito, per tutti gli stalinisti jugoslavi, ma anche per il prologo che fece Vidali il leader dei comunisti antitini del PC del Territorio Libero di Trieste, che avrebbe portato il suo a essere il secondo partito più forte alle elezioni del 1948, con il 21,4%, mentre quello filojugoslavo non raccolse più del 2,35%. E sì che quest’ultimo, per tutto il periodo, aveva dato esempio di minacce e pericolose azioni notturne, con le quali “i titoisti erano soliti rapire di notte i ‘vidaliani’ e farli sparire oltre confine, sotto lo sguardo disinteressato delle autorità angloamericane per le quali ‘più comunisti si ammazza[vano] tra di loro e meglio [era].”
E proprio sul “terrore scatenato da Tito in Jugoslavia e in zona B” si basò la vittoriosa campagna elettorale del PC vidaliano. Purtroppo, l’Istria e Fiume erano già state escluse dalla democrazia e dal voto. In compenso, ne hanno potuto godere i comunisti della minoranza slovena rimasta in Italia che hanno avuto la fortuna di godere di tutte le libertà democratiche in Jugoslavia abolite.
Diego Zandel