Il titolo, un po’ forte, manifesta l’intenzione di sottoporre all’attenzione dei lettori il progressivo ma irreversibile cambio di atteggiamento che le classi dirigenti, da quella politica a quella finanziaria, stanno assumendo nei confronti di internet.

Fin dagli anni 50, quando il web ancora non esisteva, i primi pionieri che avevano già cominciato a immaginare lo sviluppo e le potenzialità dell’intelligenza artificiale si erano posti l’interrogativo sul rischio che le macchine digitali venissero “usate da un gruppo di esseri umani per aumentare il loro controllo sul resto della razza umana” (la citazione è tratta da un saggio di Norbert Wiener, ad oggi considerato il padre della cibernetica moderna).

Per come è stato concepito internet nei primi quindici anni del nuovo secolo, soprattutto a seguito della creazione e della diffusione massiccia dei social network, internet è uno spazio libero dalle barriere del “mondo reale”, uno spazio a cui tutti gli utenti possono accedere illimitatamente a qualsiasi contenuto desiderato e crearne di nuovi, costruendo una realtà, per quanto non alternativa o sostitutiva, ma parallela a quella del mondo fisico in cui si è costretti a vivere ogni giorno. Per fare un esempio, è sufficiente pensare allo scopo ultimo di Instagram, creato per dare la possibilità a tutti di accendere i riflettori sulla propria vita, a darvi un “taglio” o una prospettiva più accattivante.

Fino a qualche anno fa, le uniche regole che disciplinavano il funzionamento del web erano frutto degli algoritmi creati dai programmatori delle piattaforme web, senza però che queste regole automatiche di manipolazione dei dati permettessero agli stessi programmatori di sindacare o intervenire sui contenuti creati e veicolati dagli utenti.

I recenti scandali hanno posto sotto gli occhi non solo dell’utente medio ma anche della classe politica globale, per lo più ignara dei meccanismi di funzionamento delle piattaforme, quali siano i reali rischi di un web de-regolamentato per la tutela di quei diritti che, nel mondo “materiale” di tutti giorni, trovano espresso riconoscimento e protezione.

Il caso più eclatante è certamente quello relativo a Cambridge Analytica, società di consulenza britannica creata per analizzare i dati ai fini della gestione delle strategie comunicative delle campagne elettorali. Grazie alle rivelazioni di un ex dipendente, Christopher Wylie, nel 2018 è emerso come Facebook abbia implicitamente consentito, per ben due anni, che i dati veicolati e spontaneamente rivelati dai suoi 87 milioni di utenti fossero utilizzati dalla società britannica senza alcun preventivo consenso dei titolari, al fine di ottimizzare e targetizzare i messaggi veicolati in diverse campagne politiche cruciali nello scacchiere geopolitico del mondo, e che hanno condotto Trump alla Casa Bianca e l’Inghilterra nel baratro della Brexit. Il trasferimento dei dati, si legge negli atti del procedimento davanti alla Federal Trade Commission (l’agenzia di governo statunitense a tutela dei consumatori), sarebbe avvenuto non per un attacco informatico alla piattaforma, ma, sembrerebbe, a seguito di un accordo economico con la stessa Facebook. Lo scandalo ha comportato per la società di Menlo Park una multa di 5 miliardi di dollari, la più alta mai inflitta da parte della FTC a una società hi-tech.

Sempre la Federal Trade Commission ha di recente colpito l’altro colosso hi-tech, Google, sanzionandolo di una multa milionaria (di cui ancora non si conoscono le cifre precise) per aver violato, tramite la sua diffusissima piattaforma video Youtube, i dati dei propri utenti di età inferiori a 13 anni “per mandare pubblicità profilata”, come riportato dalla giornalista Rosita Rijtaiano nell’articolo di Repubblica del 21 luglio scorso.

Entrambi i due colossi del web appena citati devono inoltre fronteggiare l’inchiesta recentemente aperta dal governo americano sull’eventuale violazione delle norme antitrust, considerato lo strapotere acquisito sul mercato. Entrambe le compagnie si sono difese sostenendo che il mercato in cui operano non è comunque privo di concorrenti, e che la posizione dominante acquisita sia esclusivamente frutto “della qualità dei propri prodotti”, come riporta il giornalista Paolo Mastrolilli su La Stampa.

Un ultimo caso che ha ulteriormente messo in evidenza i pericoli per la protezione dei dati degli utenti riguarda Whatsapp, l’applicazione creata per l’invio di messaggi istantanei e che ormai ha permanentemente sostituito i vecchi “sms”, e che è stata rilevata da Facebook nel 2014 per ben 19 miliardi di dollari. Come è noto, la protezione delle conversazioni tra utenti si basa sulla crittografia end to end, che impedisce a chiunque non sia mittente o destinatario di entrare nella conversazione. Eppure, come portato alla luce dal Financial Times è stato sufficiente che uno spyware noto come Pegasus, creato da un’azienda israeliana che si occupa di cybersicurezza, il noto gruppo NSO, penetrasse in tutti i principali device, da Android ad Apple, e riuscisse ad accedere non solo alle chat degli utenti, ma addirittura ai cloud su cui i server delle maggiori Big Tech conservano le migliaia di dati degli utenti, per poi venderli ai regimi autoritari del Golfo.

Tutti questi casi sopra descritti non possono che farci riflettere sulle implicazioni che l’abuso dei dati degli utenti, specie se raccolti senza consenso, possono comportare: dalla manipolazione delle opinioni politiche, alla diffusione di fake news, per arrivare al più estremo rischio di sovversione dei sistemi democratici.

La politica, a ogni livello, sta assecondando il pensiero comune all’utente medio secondo cui la regolamentazione del web non possa essere demandata esclusivamente a chi ne gestisce le piattaforme, e che debba essere delineato un sistema di controlli e responsabilità precisamente individuabili anche in merito ai contenuti che tali piattaforme ospitano. La libertà di internet non può più essere intesa come un’assenza di regole e di barriere: adottando l’espressione in voga tra molti leader europei, tra cui Theresa May e l’ex presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, “il far west” deve finire.

Questo cambiamento di tendenza si è registrato per primo in Europa, con l’introduzione del nuovo RGDP, Regolamento Generale sulla protezione dei Dati, adottato dall’Unione Europea nel 2016 e in vigore da maggio 2018, con cui si è introdotto il fondamentale requisito del consenso dell’utente per un legittimo trattamento dei dati dello stesso. In Francia, nel luglio di quest’anno è stata varata una legge apposita che vieta e punisce chi diffonde discorsi d’odio su internet. Nel Regno Unito, ad aprile, il Segretario di Stato per il Digitale, la Cultura, i Media e lo Sport, Jeremy Wright, e il Ministro dell’Interno, Sajid Javid hanno presentato al Parlamento britannico un white paper lungo più di un centinaio di pagine, dal significativo titolo “online harms”, con cui introduceva delle misure volte a prevenire i pericoli del web, dalla diffusione di contenuti illeciti, allo sviluppo di cellule terroristiche fino al rischio di “usare la disinformazione per minare i valori della democrazia”. Negli Stati Uniti, il NIST (l’ente federale per gli standard tecnologici) sta redigendo un progetto che, prendendo spunto dal rapporto pubblicato da Pechino nel gennaio 2019, indica alle imprese quali sono i “comportamenti etici” e gli standard tecnologici da rispettare per evitare di perpetrare pratiche scorrette e che si creino dei monopoli nel mondo dell’impresa digitale.

Senza dilungarsi ulteriormente, bisogna necessariamente menzionare come si stia prendendo finalmente coscienza di come le piattaforme web stiano determinando un nuovo modo di fare business, che coinvolge ormai non solo le grandi aziende, ma che condizionerà la vita di tutti i consumatori. Negli Stati Uniti, da un lato si dibatte sulla reintroduzione della protezione della cosiddetta “neutralità della rete”, principio (che aveva trovato espresso riconoscimento durante l’amministrazione Obama) secondo cui qualsiasi dato che transiti su una piattaforma web debba essere trattato allo stesso modo, senza che gli utenti possano subire discriminazioni nell’accesso e nella navigazione per colpa dei comportamenti dei provider, che decidano di privilegiare quelle società più ricche e che siano disposti a investire maggiormente per la commercializzazione online dei propri prodotti. Dall’altro, Facebook ha recentemente lanciato un nuovo progetto, la propria criptovaluta, “Libra”, con cui permetterà dal 2020 a chiunque possegga uno smartphone di effettuare pagamenti, con commissioni vicine allo zero, seppur sprovvisti di un conto corrente: un sistema ambizioso, con cui auspica di sostituire le grandi banche nell’espletamento delle operazioni finanziarie (dalle grandi transazioni agli acquisti della vita quotidiana) ma che dovrà dimostrare di poter superare i rischi di frode ed evasione fiscale che rendono i governi di tutto il mondo ancora “ostili” alle monete digitali.

Concludo questa riflessione menzionando il rapporto pubblicato nel 2018 organizzazione non governativa Freedom House, storicamente impegnata nella sensibilizzazione sul rispetto dei diritti umani e dei principi democratici: su un campione di 65 Stati analizzati, tra cui l’Italia, è emerso come sia sempre più diffuso il modello di controllo autoritario adottato dal governo Cinese nella regolamentazione del web, con conseguente peggioramento della tutela della libertà degli utenti in internet. “I governi autoritari e populisti – si legge – stanno utilizzando la lotta contro le fake news come un pretesto per imprigionare eminenti giornalisti e critici dei social media”, con il serio rischio di minare la libertà di espressione e di sfruttare la rete per soffocare il dissenso dei cittadini nei confronti della classe politica.

Come si vede, ancora una volta il tema che emerge riguarda uno dei più antichi dibattiti filosofici, già discussi ai tempi di Hobbes e Locke: siamo disposti, come cittadini, a sacrificare la nostra libertà in nome di una maggiore sicurezza?

Edoardo Schiesari

 

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